La residenza di ricerca Young Curators Residency Programme, di cui sono stata responsabile dal 2018 al 2021 e che viene promossa dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo dal 2007, mi ha permesso negli ultimi anni di incontrare un grande numero di artistə su tutto il territorio italiano, viaggiando insieme a un gruppo selezionato di curatorə internazionali. Durante gli incontri di cui è costellato il nostro percorso, non è raro che emerga un tema apparentemente secondario, ovvero cosa fanno lə artistə quando non fanno lə artistə – o meglio, cosa fanno lə artistə per potersi permettere di fare lə artistə. La realtà del “secondo (terzo, quarto) lavoro” è estremamente diffusa per chi lavora nell’ambito dell’arte contemporanea in Italia. “Qual è il tuo vero lavoro?” domandava un progetto iniziato qualche anno fa da Lia Cecchin e Isamit Morales, ironizzando su come quella dell’artista non fosse considerata seriamente una professione non solo dalle istituzioni, ma anche dalla stessa categoria.
Le risposte a questa domanda sono solitamente svariate: allestitorə, graficə di banner pubblicitari, guardasala, docente universitariə, di scuola secondaria, elementare, maestrə di asilo, commessə, netturbinə, chirurgə plasticə, camerierə, baristə, babysitter sono solo alcune di quelle che ho sentito negli ultimi mesi. Secondo i dati recentemente raccolti da Art Workers Italia e ACTA nella prima indagine di settore dedicata all’analisi delle condizioni di vita dellə art workers in Italia (2021), il 79% di chi ha risposto all’indagine svolge più lavori, sia nell’ambito dell’arte contemporanea che fuori (39,8%). Questa scelta, nella stragrande maggioranza dei casi, è motivata dal fatto che il compenso ottenuto con il lavoro principale nell’arte contemporanea non è sufficiente a mantenere un tenore di vita dignitoso. D’altronde, i dati sul reddito lo confermano chiaramente: quasi la metà di chi ha risposto all’indagine ha ottenuto, nel 2019, un reddito annuale inferiore ai 10.000 euro, circa il 24% un reddito tra i 10 e i 20.000 euro e solo l’8% ha superato i 30.000 euro – lavoro sommerso incluso. Questi numeri sorprendono soprattutto se affiancati ad un altro dato fondamentale, quello che il 90% dellə art workers che hanno risposto all’indagine ha una formazione specifica in ambito artistico – nella fattispecie, circa l’86% ha una laurea magistrale o un grado di formazione ancora più elevato, spesso conseguito all’estero (nel 28% dei casi).
Possiamo presumere che i dati specificamente legati allə artistə (professione segnalata come “principale” da una buona parte delle persone che hanno risposto all’indagine) non si discostino troppo da quelli generali appena descritti. Che lə artistə svolgano lavori paralleli alla loro carriera artistica non è una novità: Harun Farocki ha per un periodo realizzato delle “Storie della buonanotte” per la TV tedesca, brevi video educativi per l’infanzia in cui spesso coinvolgeva le sue figlie come attrici; Maurizio Cattelan racconta, notoriamente, di aver lavorato come giardiniere, cameriere, antennista e portalettere; Giosetta Fioroni disegnava costumi di scena, mentre Pino Pascali realizzava scenografie per la RAI. Sarebbe certamente interessante integrare la storiografia artistica canonica con un’analisi critica dell’influenza che il lavoro parallelo portato avanti dallə artistə ha avuto sulla loro pratica artistica (e viceversa), ma ciò che mi preme sottolineare in questa sede è piuttosto un discorso di tipo metodologico: in che modo può essere portato avanti il lavoro dell’artista quando non è tutelato, remunerato, e spesso non è nemmeno considerato veramente un lavoro?
Il problema travalica la questione prettamente economica per entrare in quella, ad essa strettamente intrecciata, del riconoscimento sociale di questa figura. Il titolo “Come spiegare a mia madre che ciò che faccio serve a qualcosa?”, dato dal gruppo Oreste a un convegno nel 1997, sembra riassumere ancora una problematica fondamentale, che attraversa l’aspetto politico, giuridico e culturale del lavoro nell’arte. Durante il “viaggio in Italia” tracciato dalla presente inchiesta, spero che tenere a mente questa costellazione di pensieri possa offrire allə lettorə delle coordinate utili su ciò che sta prima, dopo e intorno alle pratiche artistiche che incontrerà: un piccolo strumento interpretativo della complessità, del valore, e della tenacia caratteristiche del lavoro artistico in Italia.