La pratica di Giuseppe di Liberto appare barocca, sia per il modo drammatico e al contempo sensuale con cui affronta il concetto di vita e di morte, sia per la riproduzione di scenari legati alla creazione e alla distruzione. Le sue opere, siano esse calchi, sculture o installazioni si confrontano con il paradosso e mistero dell’immagine come simulacro e palliativo all’assenza e alla morte, un rimedio per affrontare la caducità inevitabile dei corpi. Per tale ragione molte delle opere di Di Liberto fanno riferimento a rituali funebri riprendendo e ispirandosi a tradizioni mediterranee anche molto antiche, alla ricerca di un paradigma, un bisogno ancestrale e universale da cui tutte le immagini e l’arte emergono, in risposta al trauma e al terrore dell’assenza. Non a caso c’è qualcosa di tragicamente teatrale nel modo in cui con le sue opere affronta lo spazio espositivo, mettendo in scena la tragedia dell’uomo moderno, costretto ad uno stato di precarietà e fragilità. In questo senso, con un esistenzialismo estremamente carnale e concreto, l’opera di Di Liberto si confronta con i grandi tabù della nostra società, diventati però inaspettatamente così vicini e tangibili a livello globale nuovamente con la pandemia: la sofferenza, la morte, e il lutto.
Giovane artista di origine palermitana, ma che da anni vive a Venezia, in questa intervista ci racconta della sua esperienza alla Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia. Abbiamo riflettuto sul ruolo delle residenze, le opportunità che possono offrire, ma anche i limiti che presentano nel nostro Paese.
In Italia le residenze sono forse troppo provinciali, molto vincolate nel loro giro: se la residenza è a Venezia ad esempio, c’è sempre lo stesso giro di gente che passa. In una residenza in Nord Europa ad esempio si cerca di avere, o perlomeno invitare in visita curatori affermati, locali ed esteri, per promuovere uno scambio internazionale. Anche se non è una residenza ma un’università, IUAV forse è l’unica realtà ad esempio a Venezia con una visione internazionale, in particolare tramite seminari, simposi e workshop, grazie al supporto di personalità come Angela Vettese, Angela Mengoni, Maria Luisa Frisa per citarne alcune, ecc…
Le residenze private forse si differenziano: io ho avuto la fortuna di partecipare alla residenza di Palazzo Monti. La cosa che mi ha colpito è che mi contattò Edoardo Monti lui, un po’ secondo un vecchio modello anche di mecenatismo, che è interessante: se mi piace un artista e voglio creare delle connessioni, decido allora di investirci e supportare donando uno spazio e creando delle connessioni anche con più persone, e opportunità. Una residenza deve essere un’opportunità a 360 gradi°. La residenza è un momento in cui ti metti in gioco e cresci a livello umano, estetico, etico e contenutistico, capendo come livellare il proprio ego a favore di una sinergia motrice collettiva.
Dopo residenza: questo periodo ti ha portato a riflettere su quali sono tuoi obiettivi futuri, per continuare a crescere e sviluppare la tua carriera di artista?
Attualmente Venezia mi sta donando delle belle vibrazioni, in particolare con FRICHE, il neo collettivo artistico che ho co-fondato insieme ad Alice Pini, Agnese Garbari, Gemma Bruni, Isabella Santomauro e Lorenzo Montinaro, durante il laboratorio di arti visive (magistrale IUAV), curato da Davide Quadrio e Francesca Filisetti.
La dimensione collaborativa del lavoro e delle riflessioni sta portando degli ottimi frutti, soprattutto sotto l’aspetto umano: la competizione, che spesso caratterizza il giovane mondo dell’arte, qui svanisce attraverso una riduzione di un ego soggettivo a favore di una cooperazione e interconnessione collettiva. Non nego però che il mio sogno sarebbe andare fuori, e in particolare in Belgio: non solo per il diverso sistema a supporto dell’arte, ma anche perchè penso che il mio lavoro sia molto legato al quotidiano e ad una cultura fisica, ma anche a una spiritualità carnale, che sebbene provenga dal Mediterraneo, la si ritrova in Belgio e in particolare nel grottesco fiammingo. Non a caso la maggior parte degli artisti che fanno scattare dentro di me un agente “traumatico” (in accezione positiva del termine) tutti gli artisti che danno pugni nello stomaco vengono da là, penso a Tuymans, la Dumas.
Comunque guardi all’estero. Pensi che tornerai poi in Italia? Ti vedi magari una volta avviato rientrare a lavorare anche nella tua nativa Palermo?
Io a Palermo vorrei anche tornare se cambiasse qualcosa. Dopo anni fuori e vedendo cosa succede fuori dall’Isola, mi rendo conto che non ci sia movimento e fermento, e come sia in difetto. Del resto ti rendi conto poi che l’Italia stessa è un isolotto, e ancor più Venezia in sé. A livello sociale e umano trovo molte connessioni fra Venezia e la Sicilia, due isole distanti fisicamente ma vicine come spirito in questa volontà di isolamento, ma vissuto forse in maniera diversa: se il siciliano dice “siamo sfortunatamente in un’isola” e si rende conto dei limiti di questo, i Veneziani dicono “siamo fortunatamente un’isola a sé”, e ne sono orgogliosi.
In 3 parole: che cosa cerchi in una residenza, perché sia fonte concreta di opportunità?
1) Professionalità, rispetto al proprio ruolo e sviluppo futuro.
2) Confronto, con altri artisti ma anche con altre professionalità, per favorire lo scambio di saperi ed esperienze. Lì cresce la persona. Altrimenti è spazio di produzioni. Costituire una ricerca oltre che personale collettiva
3) Creare dei ponti (e meglio ancora con l’estero) per aiutare gli artisti a farsi conoscere.