Hangama Amiri (1989, Pakistan) è un’artista afghano – canadese che vive negli Stati Uniti. Ha lasciato l’Afghanistan all’età di 7 anni, ma continua a relazionarsi con il suo paese di origine, affrontando questioni di politica, femminismo, genere e geopolitica. La sua pratica artistica è radicata nelle tradizioni e nei costumi afgani e spesso incorpora riferimenti alla cultura islamica in generale.
Le preoccupazioni e le paure per il futuro dell’Afghanistan hanno avuto un’impennata nell’estate del 2021, in seguito al ritiro delle truppe americane e il conseguente controllo del Paese da parte del governo talebano. In Spettatori di una nuova alba, concluso nel 2021, pur esprimendo forti preoccupazioni per la sorte del tuo Paese, lasci spazio alla speranza. Se dovessi immaginare un nuovo corpus di lavori ispirato a quello che sta accadendo in Afghanistan, come pensi che sarebbe?
Difficile immaginare in quale tipo di narrativa prenderebbe forma o evolverebbe il mio lavoro, dato che i conflitti e le tensioni interne rimangono al centro della vita politica e sociale afgana, a cui non posso che assistere da lontano. L’attuale corpus di lavori riflette le atrocità, il potere religioso forzato e il cambiamento culturale, concentrandosi sulla prospettiva dei giovani e su come vogliono vedere l’Afghanistan domani. Tutto quello che posso dire è che, come generazione afgana del dopoguerra, non sono mai rimasta in silenzio, ho alzato la voce e ho fatto la mia arte sull’Afghanistan. Continuo a sostenere, riflettere e rappresentare le storie e le esperienze di oggi che sento raccontare dalla mia famiglia, dai miei amici e dai colleghi che vivono ancora lì. Continuerò a tessere le storie delle donne afgane che vivono e respirano ai margini di questa società conflittuale. Utilizzando la piattaforma delle arti e della storia, l’obiettivo è dare a queste donne un modo per occupare spazio tra le comunità internazionali.
Come hai vissuto questo periodo di crisi in cui, al dramma afgano, si è sovrapposta la pandemia? Come pensi abbia influito sul tuo lavoro?
La pandemia mi ha permesso di riflettere maggiormente su me stessa e sulla mia esperienza di vita negli Stati Uniti. La mia pratica artistica è cambiata perché ho cominciato a interessarmi a questioni legate alla casa, all’appartenenza nel contesto degli Stati Uniti e agli oggetti quotidiani che utilizzavo, legati all’Afghanistan. La mia mostra personale alla Cooper Cole di Toronto ha presentato un diverso corpus di opere che riflette nuovi temi legati alla casa e alla memoria dopo la migrazione. I lavori tessili rispecchiano le osservazioni sul mio spazio domestico, aprendo un dialogo tra aspetti emotivi e fantasiosi della memoria culturale, toccando sentimenti di solitudine, isolamento, amore, intimità e desiderio.
Seta, mussola, raso, chiffon, tessuti ricamati: sono alcuni dei materiali che compongono le tue opere, oltre alla tela. Quanto la dimensione culturale del bazar è migrata nel tuo lavoro e qual è il messaggio che intendi trasmettere impiegando questi tessuti così legati al tuo paese di origine?
L’influenza del bazar all’aperto nelle mie opere ha a che fare con il modo in cui le comunità afgane entrano in connessione e interagiscono con il valore di scambio dei beni che consumano e producono. Mi interessava interrogarmi su come i prodotti, gli oggetti esotici e altri beni siano essi stessi migrati fuori dal contesto del bazar. Da bambina, cresciuta nei bazar di Kabul, ero affascinata dai tessuti del Pakistan, dai bellissimi ricami fatti a mano degli abiti afgani, dai motivi complessi e dai colori decorativi dei sari indiani. Alla fine, come flâneuse in Afghanistan, mi sono trovata in un crogiolo di culture diverse provenienti dai paesi vicini all’Afghanistan. Questo è ciò che rende i bazar in Afghanistan ricchi, rumorosi e festosi. Mi interessava usare il bazar come nozione di diversità, all’interno dei miei lavori tessili, per esprimere la mia comprensione delle diverse demografie, aree geografiche e culture con cui sono cresciuta da rifugiata. L’unione di questi frammenti di tessuti diversi mi ha aiutata a comprendere meglio la mia storia e identità da immigrante.
Hai vissuto come migrante per gran parte della tua vita. Quale è la tua definizione di casa e quanto è importante per un’artista relazionarsi con uno spazio reale o immaginario che può chiamare patria?
La mia definizione di “casa” è più legata alla memoria, ai sentimenti e all’immaginario, piuttosto che a un territorio specifico o al suo essere fisico. Non importa quanto lontano ho vissuto dall’Afghanistan, non ho mai smesso di pensarlo, cercarlo o scoprirlo. Da immigrata, conoscere la mia origine mi ha permesso di rivisitare i miei ricordi attuali e d’infanzia e trovare un modo di costruire, attraverso l’arte, partendo da quei fragili ricordi. Vivere in un mondo globalizzato significa anche che ora posso connettermi più rapidamente e soddisfare la mia esigenza di casa in tanti modi diversi, come videochiamare cugini e zie o acquistare una marca specifica di riso. Ho scoperto che non è necessario andare nel proprio paese d’origine per vivere determinate esperienze culturali e ho capito che è possibile trovare quel leggero senso di casa tra le comunità diasporiche locali.