Dicembre 2025
“It’s getting grayer and gold and chilly” è il titolo della mostra personale che presenta le opere appositamente create da Anna Glantz per Fondazione Bonollo a Thiene.
Le opere di Glantz, sospese tra astrazione e figurazione, elaborano forme attraverso campi di colore e variazioni tonali per sollecitare percezioni, memorie e sensazioni. Abbiamo approfondito assieme a lei il suo approccio alla pittura, l’aspetto linguistico che essa assume e l’esperienza dell’incontro con l’opera.
Nel testo che presenta la mostra, la curatrice Elisa Carollo esordisce parlando del vuoto che precede la creazione, della catastrofe che è la tela bianca “dove forma e significato esistono ancora solo in potenza”. Come affronti lo spettro della tela bianca? Da dove inizia il percorso d’immaginazione? E che viaggio compiono le immagini che poi visualizzi sulla tela?
La tela bianca è meravigliosa nel senso che possiede un potenziale infinito. Quando realizzo un dipinto, parte del mio obiettivo è cercare di mantenere questa sensazione di possibilità e apertura fino alla fine. Mi interessa creare un dipinto che abbia una sua presenza e una sua peculiarità, ma che riesca comunque a lasciare spazio a nuovi pensieri — che possa essere un punto di partenza per lo spettatore.
Inizio i dipinti in modo molto semplice, mettendo molta pittura sulla tela senza cercare di anticipare quale sarà il risultato finale. Non ho un’immagine o uno schizzo in mente, ma a un certo punto mi piace trovare una struttura e un senso di volume o orientamento che diano al dipinto una solida integrità. Come molti pittori, cerco di reagire in tempo reale a ciò che vedo sulla tela—ogni momento conduce al successivo. A volte riconosco un accenno di qualcosa—un’ora del giorno, o forse la sensazione di un’altra epoca, qualcosa di elegante o di umido. Cerco di sviluppare questi momenti se sono interessanti o sorprendenti per me.
Questo processo si svolge nell’arco di molti mesi e somiglia un po’ a manipolare un indumento… una giacca che posso rivoltare all’infinito o a cui posso tagliare un collo diverso. I dipinti arrivano a una conclusione quando sento di aver creato qualcosa di reale — qualcosa che è forse confuso ma innegabile, un partner di conversazione o un compagno. Credo che mi piacerebbe che fossero all’altezza della complessità e della profondità di una persona — una persona che vive oggi. Questo sembra un traguardo impossibile, ma se i dipinti possono conservare un senso di questa possibilità, se possono indicare questo potenziale, allora hanno fatto qualcosa.
Tutti i lavori presentati a Thiene sono dei senza titolo. Sono scene frammentarie, oniriche e sospese. Rispetto a mostre precedenti qui abbandoni l’appiglio alla parola. Sempre nel testo curatoriale si parla di parole che aleggiano dietro le immagini, mi chiedo quindi che rapporto hanno le immagini che crei con la parola, con la titolazione?
Ho sempre pensato alla pittura come a qualcosa che possiede una struttura simile alla grammatica. Trovo che questo valga anche per l’architettura — la sala della cappella della Fondazione Bonollo ha una simmetria accentuata che si legge come una frase esclamativa audace. L’aspetto linguistico della pittura, per me, riguarda le relazioni tra le parti e il ritmo o la struttura dell’insieme — il modo in cui una forma si sovrappone, o sfiora appena, o domina un’altra. Quando realizzo un dipinto, sposto gli elementi e elimino diverse sezioni in un modo che assomiglia alla scrittura.
Per questa mostra, ho deciso di non includere titoli perché mi sembrava che ne appiattissero l’esperienza, chiudendo alcune interpretazioni e sostenendone altre. Ho scelto invece di dare un titolo alla mostra, “It’s getting grayer and gold and chilly”, che è un verso della poesia February di James Schuyler. Mi piaceva il fatto che “gold” – oro – potesse essere scambiato per “cold” – freddo – per via della sua somiglianza a “chilly”. Per me funziona come una sorta di cerniera tra colore e temperatura, anche se non sono sicura di come venga percepito nella traduzione italiana. Il titolo sembrava avvolgere la mostra in una sorta di atmosfera meteorologica e allo stesso tempo sollevare domande insolite — come può diventare più grigio e dorato allo stesso tempo? Speravo potesse anche essere un suggerimento sottile che i dipinti possono essere avvicinati poeticamente e che non esistono risposte giuste o sbagliate.
Sembra che la tua pittura si incunei tra la struttura della realtà esterna e la nostra percezione, e il gesto pittorico si costituisca come un atto conoscitivo. Queste immagini “costruiscono senso per associazione, spostamento e memoria” – metodo che ricalca il meccanismo di funzionamento dei sogni descritto da Freud di condensazione e spostamento. Che rapporto c’è nella tua dimensione pittorica tra sogno e fenomeni percettibili coi sensi?
Penso che confrontarsi con la materia della pittura ci costringa ad affrontare il fatto che anche noi siamo materia fisica, che siamo in un corpo separato dagli altri corpi. La pittura, per me, riguarda moltissimo la realtà di questa materia, in alcuni modi persino più della scultura. L’artista Charles Ray ha scritto: “Lo spazio è il mezzo primario dello scultore, un fatto così ovvio che è facile trascurarlo”.
Nella pittura, lo spazio è sempre materia solida. Quando realizzavo i dipinti per questa mostra, ho pensato molto ai paesaggi veneziani di Canaletto — alcuni dei dipinti più ariosi che riesco a immaginare. Li amo perché sono pieni fino all’orlo di spazio, come piccoli palazzi di cristallo fatti di atmosfera, involucri di vetro di cielo e acqua. Ma anche l’aria di Canaletto è incredibilmente fisica — le pennellate delle nuvole e del cielo sono sorprendentemente spesse e talvolta stranamente diagonali. Come fa a creare così tanto spazio da una sostanza fisica? Non solo ha creato aria da materiali solidi, ma i suoi dipinti sono spaziosi anche a livello psicologico — ha aperto un varco che prima non esisteva e che può accogliere nuovi pensieri.
Forse l’aspetto onirico dei miei dipinti — il fatto che non si assestino mai del tutto in un’unica immagine — è il mio modo di creare spazio. Non è un contenitore cristallino come quello di Canaletto, ma proprio perché i miei dipinti non si risolvono mai del tutto, lasciano fessure e fanno entrare correnti d’aria.
Consideri la pittura non come rappresentazione ma come rivelazione, come modi di intrecciare visione, memoria e linguaggio. Sempre nel testo curatoriale si afferma che la tua pittura: “[A]llinea la mente a una più ampia coscienza universale”. Quanto ti interessa guidare lo spettatore e intervenire in questo viaggio da percezione a cognizione a immagine?
Spero che gli spettatori trovino un loro significato nei miei dipinti, o forse che i dipinti ricordino loro qualcosa o avviino una catena di pensieri che altrimenti non avrebbero avuto. Al di fuori del realizzare i dipinti e scegliere come esporli, non ho il desiderio di guidare l’esperienza dello spettatore o di intervenire. Spero che questo non sia indice di una mancanza di generosità da parte mia, ma piuttosto una fiducia nel fatto che lo spettatore sia in grado di pensare autonomamente e non abbia bisogno di essere istruito su come vivere l’opera.
Vedute installative, It’s getting grayer and gold and chilly, Fondazione Bonollo, Vicenza, 2025, foto Giovanni Canova
Anna Glantz, Untitled, 2025, olio su tela. Courtesy l’artista e The Approach, London, foto Giovanni Canova