Come pensi che il tuo lavoro possa aiutare le persone a capire cosa stanno vivendo gli ucraini in questo momento?
Se pensi che il tuo lavoro possa aiutare qualcuno, vuol dire che pensi troppo a te stesso. Spero solo che quello che faccio possa aiutare a far comprendere un po’ meglio ciò che accade. Tuttavia, per me ci sono due modi diversi di lavorare. A volte sono come uno di quei fotografi patriottici che vogliono combattere la propaganda russa, che provano a resistere nel tentativo di mostrare la verità, che lavorano con le riviste perché capiscono che i media internazionali sono strumenti di confronto. A questo fine seguo le attività dei soldati. Poi c’è l’altra parte di me: l’artista che non vorrebbe agire, che non vuole arrivare alla prima linea del fronte. A volte trascorro del tempo a 10 chilometri dal fronte e lì penso che questa guerra sia un’assurdità e che in futuro arriverà comunque la pace. È una situazione davvero strana quella che sento dentro e, dopo un anno di guerra, vorrei solo avere l’opportunità di fare qualche progetto artistico. Spero che presto vinceremo perché sono molto stanco di stare in prima linea e soprattutto di confrontarmi con l’esercito che non permette l’accesso ai giornalisti. A volte mi capita di trascorrere sei settimane con i militari solo per farne una di shooting fotografico, quindi perché dovrei farlo?
Certo, penso che sia importante per la storia, e specialmente per le persone lontane dall’Ucraina. Prima di questa guerra, non credevo davvero che i media potessero far cambiare idea alle persone, ma quando una mia foto è apparsa sulla copertina del Time, ho capito che alcuni mezzi di comunicazione hanno ancora un potere enorme. Dopo quel momento, ogni sera per due mesi sono stato intervistato dalle TV giapponesi e americane. In tanti da diversi paesi del mondo hanno visto le mie foto e hanno sentito la necessità di parlare con chi vive qui per cercare di capire meglio la situazione. Inoltre, la nostra propaganda all’estero è particolarmente debole. Quindi credo di poter fare molto di più per il mio Paese con la fotocamera e con la mia Optima. Se mi mandassero in trincea sarei inutile. Non saprei cosa fare e non ho nessuna intenzione di uccidere qualcuno. Sono pronto a rischiare la vita, ma non ad ammazzare un altro essere umano.
In che modo la guerra ha cambiato la tua percezione della fotografia?
Il mio modo di fotografare non è legato alla guerra in Ucraina. La fotografia per me non è collegata prettamente al giornalismo, piuttosto ha a che fare con la filosofia e il linguaggio visivo, quindi la mia percezione della fotografia si modifica se qualcosa cambia dentro di me, ad esempio se si presentano alcune situazioni. Penso che il mio linguaggio visivo sia cambiato a causa dei libri che ho letto, dello studio della filosofia, del mio background, ma in realtà anche la guerra mi ha cambiato. Se parliamo solo di fotografia e non di arte visiva, prima ero fortemente ispirato da alcuni fotografi di guerra. Una certa stampa ha creato alcune celebrità come Robert Capa, ma quante persone sono morte cercando di imitare questa leggenda? E ancora oggi non sappiamo nemmeno se questa storia sia vera. Con il tempo, ho perso la stima per la fotografia di guerra. Cerco di fare una fotografia “pacifica”, senza esibire o romanticizzare il conflitto. A tal riguardo, periodicamente mi capita di fare delle riflessioni intime, come ad esempio: dovrei fotografare o no i soldati ucraini con le nuove tecnologie militari americane o europee, o che catturano i nemici russi? Penso che anche questa sia una propaganda al pari di quella della Germania nazista. La mia idea è che dovrei mostrare solo soldati ucraini mutilati o edifici distrutti, in modo che la gente veda cosa significa la guerra. Odio la guerra e desidero inserire tutte queste mie considerazioni nelle mie foto. Se dovessi fotografare soldati al fine di incitare le nostre giovani generazioni ad arruolarsi nell’esercito e a essere coraggiose, la cruda verità è che alla fine anche tutti quei soldati moriranno. Nel 2014 ho trascorso molto tempo con i militari perché lo desideravo, ma ora lo faccio soprattutto perché capisco il potere dei media internazionali e se c’è l’opportunità di fare una pubblicazione su qualche rivista ne colgo l’estrema importanza, nonostante quelle immagini probabilmente non saranno rilevanti per il mio libro o per la mia mostra.
Inizialmente accettavo continuamente progetti per riviste internazionali che hanno coperto i primissimi mesi di guerra. Ora questo lavoro non è più importante per me. Ora accetto incarichi dalle riviste solo se sono interessanti ai miei occhi, ma soprattutto mi concentro su storie di lungo periodo, come vivere per settimane negli ospedali da campo o con i soldati. Nel tempo libero, tra un incarico e l’altro, prendo la mia macchina fotografica e viaggio in alcune zone liberate, trascorro un paio di giorni nei villaggi e fotografo i paesaggi. Per me, personalmente, queste immagini sono molto più forti del resto perché rappresentano un modo diverso di raccontare la guerra.
Tu hai lavorato con tante riviste, soprattutto americane (Time, New Yorker) e tedesche (Spiegel). Ritieni che due riviste molto diverse tra loro, rivolte a due pubblici nazionali differenti, cerchino modi di raccontare la guerra da una prospettiva visiva opposta? Hai notato qualche differenza?
Gli editori non mi dicono mai come devo fotografare. Se decidono di lavorare con me e non scelgono altri fotografi è perché apprezzano e vogliono il mio stile sulla loro rivista. Inoltre, prima della rivoluzione del 2014 la mia fotografia era più orientata al giornalismo. Per me era importante che fosse chiaro il chi, il dove e il quando di quello che stavo raccontando. Ora invece non mi interessa il senso della foto, ma si tratta solo di far emergere le emozioni. Per questo motivo discuto spesso con i redattori sulla selezione delle mie foto, perché raramente sono d’accordo con loro. Per esempio, adesso se devo raccontare la situazione negli ospedali da campo, fotografo le tracce di sangue. Questo perché se vedi il volto dei soldati morti puoi pensare “non sono i miei amici, non è la mia famiglia, non mi riguarda”. Ma se vedi il sangue, puoi associarlo a situazioni più vicine a te. Se hai appena perso qualcuno, puoi immaginare che quella foto rappresenti il luogo in cui è avvenuta quella perdita: in questo modo chi guarda costruisce la propria storia personale attorno alla foto. Ecco perché amo le immagini senza personaggi principali o con tante persone di cui non si riconoscono i volti. Credo che da scatti come questi chi osserva possa creare racconti migliori di quelli che vedo io.
Perché hai accettato un’installazione non convenzionale per le tue foto alla mostra “La guerra è finita! La pace non è ancora iniziata” presso Fondazione Imago Mundi?
Il mio tentativo è di produrre arte attraverso la fotografia e apprezzo qualsiasi nuovo metodo di mostrare questa mia arte. La carta va bene se devi vendere le foto, ma se partecipi a delle mostre ci sono tanti altri modi di esporle e se qualcuno mi propone un esperimento come nel caso di Fondazione Imago Mundi per me si tratta di un salto di qualità, oltre che un nuovo modo di vedere le mie fotografie.
Nelle tue interviste hai spesso dichiarato di ritenere importante mostrare non solo la tragedia in una foto, ma anche la visione metafisica. Perché è così essenziale? Cosa vuoi trasmettere?
Prima della guerra, leggevo forse quattro libri al mese, soprattutto di filosofia occidentale e orientale. Per me la filosofia non è trovare risposte, ma ritengo fondamentale che qualcuno si sia posto le stesse domande che mi pongo io mille anni fa. Inoltre, è importante che la filosofia non parli necessariamente del momento presente, ma in generale. C’è una similarità concettuale nelle mie fotografie. Di recente abbiamo fatto una mostra in Corea e qualcuno è venuto da me e mi ha detto che le immagini della rivoluzione di Maidan del 2014 assomigliavano a quelle della Rivoluzione francese. È questo il punto. Nelle mie foto cerco di “pulire” tutto così che le persone ci vedano i propri riferimenti. Se mi limito a un lavoro patriottico sull’attualità ucraina, fra un paio d’anni questo non sarà più interessante né per me né per gli altri. Quindi, quello che faccio è provare a trovare concetti e domande che vadano bene per un’idea di Storia più ampia. È vero che con l’Ucraina è un po’ più difficile personalmente perché si inserisce una mia inclinazione patriottica, ma per la rivoluzione del 2014, ad esempio, non mi interessava mostrare chi erano i buoni e chi i cattivi, per me si trattava solo di due culture a confronto. Per questo ho coperto entrambi i fronti: sono stato sia con i manifestanti che con la polizia e ho chiamato il progetto “Cultura del confronto”.
Mi puoi fare qualche esempio di tue fotografie in cui questo aspetto metafisico è più evidente?
Le mie foto sono cambiate perché è cambiata anche la mia filosofia. Ho modificato il mio punto di vista. Ho trascorso gli ultimi anni in Asia meditando circa 15 ore al giorno. Penso che questo mondo non abbia bisogno di esseri umani, o perlomeno di Stati. Mentre fotografo oggetti come l’artiglieria o gli alberi distrutti nella foresta, mi rendo conto che noi tutti siamo qui solo temporaneamente. Noi, come nazione o come popolo, stiamo distruggendo le nostre terre, le nostre città e la domanda è: perché? Per quale motivo? Si combatte per il nazionalismo, per la religione, per il confine. Ma cosa significa confine? Se si conosce la Storia, sappiamo che i confini sono cambiati molte volte e cambieranno in futuro. Perché la gente deve combattere per proteggere un certo confine? Lo stesso pensiero riguarda la mia arte. So che tra migliaia di anni nessuno si ricorderà più delle mie opere. Non mi occupo di guerra perché sono patriottico, lo faccio per molte ragioni, come ad esempio lasciare una testimonianza della Storia. Facciamo le cose fondamentalmente perché ci piace farle e per me la fotografia è come un diario visivo. Se sento qualcosa, faccio una fotografia e a volte non riesco nemmeno a capirla. Solo dopo aver selezionato le immagini cerco di comprenderle ed è come un dialogo interiore con la mia mente. Quando lo faccio, le immagini diventano una sorta di meditazione. Cammino da solo, preferisco non lavorare con altri fotografi, resto un paio d’ore in un posto, ascolto il suono, cerco una certa luce, e in uno stesso luogo ci torno molte volte. È come una forma di meditazione e forse è così perché in questo momento non ritengo gli esseri umani così importanti. Nel mio lavoro cerco di distruggere il mio ego e di tagliare tutti i legami con concetti come il successo, il denaro, la competizione, la nazione e la religione. Dopo la guerra, ho intenzione di tornare a viaggiare, visitare altri paesi e so che sarò dimenticato qui in Ucraina. Per me è importante documentare la Storia, ma non mi interessa diventare un fotografo famoso. Voglio solo fare quello che mi piace fare con mia moglie, connettermi con la natura e anche con l’umanità perché in fondo siamo animali sociali. Voglio vivere la mia vita solo in funzione del presente. Perché la vita è adesso.
Cosa ci racconta il tuo lavoro della forza d’animo ucraino o della nazione ucraina? Che idea ti sei fatto sul popolo ucraino, qualcosa che prima della guerra neanche tu sapevi? Cosa ti ha insegnato questa guerra sul tuo popolo?
Naturalmente tutti sono rimasti molto sorpresi che gli ucraini potessero resistere al potere russo. Putin ha commesso un errore enorme perché ha riunito l’intera nazione, ha ricostruito un’identità nazionale forte. La guerra ha un significato per noi ora perché dobbiamo necessariamente proteggere la nostra terra, ma non è che l’abbiamo voluta. Non abbiamo alternativa, è semplicemente impossibile evacuare 45 milioni di persone in Europa. Inoltre, credo che la risposta abbia più a che fare con una nazione in guerra che con l’Ucraina stessa. La nostra non è una situazione unica e spesso si tende a voler estrapolare un elemento eroico da circostanze ordinarie. Ogni paese giovane, se attaccato o invaso, resiste. Una nazione è come un essere umano, evolve. Tutti gli Stati lottano per la propria indipendenza, come è accaduto per la Germania contro la Francia ad esempui. Ora noi stiamo lottiamo per la nostra indipendenza, per essere un paese che non sia parte di altri imperi. Chiaramente questo accade perché siamo una nazione giovane, probabilmente se fossimo una nazione più matura come l’Italia, la nostra mentalità sarebbe diversa.
Il titolo della mostra è “La guerra è finita. La pace non è ancora iniziata”. Siamo a oltre un anno di guerra e tu ti occupi del conflitto russo-ucraino dal 2014. Credi ancora nella pace? Dopo aver assistito a tanto odio, quando pensi che inizierà la pace?
Nel 2014 ci fu una rivoluzione tra due culture diverse: una parte della popolazione ucraina aveva nostalgia dell’Unione Sovietica o dell’impero russo e un’altra voleva essere un paese indipendente ed entrare a far parte dell’Unione Europea. Oggi invece è in corso una grande lotta tra la Russia e la Nato (o l’America e l’Europa), anche se a morire sono solo gli ucraini e i russi. Noi non possiamo decidere quando fermarci né tantomeno quale area liberare perché non abbiamo armi. Abbiamo le persone. L’America e i paesi europei decidono quali armi inviarci e questo significa che sono loro a scegliere quale parte del paese possiamo liberare, non il nostro Presidente. Non è una decisione ucraina. Possono dirci che ci invieranno solo 10 carri armati e che devono essere sufficienti per liberare una sola città. Tutti, anche i soldati, lo sanno. Non chiediamo di distruggere la Russia o di uccidere Putin, vogliamo solo liberare le nostre città e i nostri villaggi per tornare nelle nostre case. Non abbiamo scelta. Gli ucraini, e anche i russi, sono esausti. La Russia ritiene di combattere non contro l’Ucraina, ma contro l’Occidente collettivo. L’Ucraina è solo una zona cuscinetto tra la Russia e l’Europa e a volte mi sembra che nessuno sia davvero intenzionato a mettere fine a questa guerra il prima possibile, a partire dall’America. Sono sicuro che se gli Stati Uniti e l’Unione Europea volessero fermare questo conflitto, potrebbero farlo in un paio di settimane o mesi. La Nato è stata creata anche per garantire la pace in quest’area e noi abbiamo inviato tutte le nostre armi nucleari alla Russia firmando il Memorandum di Budapest. All’epoca Gran Bretagna, Stati Uniti e Russia promisero di proteggerci se altri paesi avessero ricominciato una guerra. Perché non possiamo creare dei sistemi che garantiscano questa soluzione? In ultima analisi, penso che questa guerra come qualsiasi altra guerra finirà con la firma di qualche pezzo di carta. Si arriverà comunque a un compromesso. Forse la Nato vorrà imporre una divisione come quella tra Corea del Nord e Corea del Sud, ma credo che l’obiettivo dell’Ucraina sia quello di liberare l’intera area occupata.
Intervista realizzata il 12 marzo 2023
1.
Maxim Dondyuk, dalla serie Culture of Confrontation, 2013-14
2.
Maxim Dondyuk, dalla serie Ukraine’22, 2023
3.
Installation view mostra La guerra è finita! La pace non è ancora iniziata, 2023, Fondazione Imago Mundi, Ph. Marco Pavan.
4.
Maxim Dondyuk, dalla serie Between Life and Death, 2017
5.
Maxim Dondyuk, dalla serie Culture of Confrontation, 2013-14