Questa intervista è frutto di uno scambio epistolare a cui è seguito un incontro online, mentre Yelena Yemchuk si trovava a Londra. Fotografa, pittrice, artista eclettica, ha lavorato per tanti anni nel campo della moda contribuendo a definire l’immagine di importanti marchi. Nel 2022, il suo libro di fotografie Odesa, dedicato all’omonima città ucraina, ha suscitato molta curiosità e approvazione e il lavoro è stato di recente esposto a Reggio Emilia nell’ambito del festival Fotografia Europea. A giugno il volume УYY ha vinto il PHotoEspaña book awards 2023 nella categoria International.
Yelena Yemchuk vive negli Stati Uniti ma è spesso in viaggio per lavoro. Incontrarla è stata un’occasione per approfondire alcuni aspetti della sua storia e anche i particolari della sua pratica artistica.
Buongiorno Yelena, sappiamo dalla tua biografia che hai lasciato l’Ucraina con i tuoi genitori quando avevi solo undici anni. Quando pensi alla tua infanzia in Ucraina, quali immagini ti vengono in mente?
Le foreste, i piccoli laghi, le fragole, il viso di mia nonna.
Qual è il tuo ultimo ricordo di Kyev?
La fuga alla stazione ferroviaria con i miei cugini, mentre cercavo di nascondermi dai miei genitori, non volevo andarmene.
Parli la lingua ucraina nella tua vita quotidiana? Se sì, con chi?
In realtà sono cresciuta parlando russo. Sono nata a Kiev ai tempi dell’Unione Sovietica, anche i miei genitori parlavano russo. Nelle grandi città il russo era la lingua ufficiale. Purtroppo il mio ucraino è pessimo. Nella capitale tutti parlavano russo, insegnavano il russo a scuola e persino in terza elementare, quando introdussero l’ucraino come terza lingua perché la lingua straniera da studiare era il tedesco, fui esonerata dalle lezioni di ucraino perché ero una ginnasta professionista, quindi non l’ho mai imparato. Nell’Ucraina occidentale, a Leopoli e in posti simili, le cose andavano diversamente, non hanno mai perso la lingua. In tutti questi anni ho parlato russo e lo parlo ancora con la mia famiglia. I miei genitori vivono a Los Angeles e parlo russo anche con le mie figlie. Abbiamo una tata ucraina che è con noi da dodici anni, da quando è nata Mirabelle, la mia seconda figlia. È originaria dell’Ucraina occidentale, quindi parla ucraino, ma anche russo. Così ora – le bambine sono grandi, quindi lei viene solo due volte a settimana perché le vogliamo bene – le ho detto: “Ok, niente più russo, solo ucraino!”. Quindi sì, dovrò prendere qualche lezione.
Il libro Odesa è pieno di giovinezza e malinconia, di possibilità e malessere. Perché hai scelto questa città per il tuo progetto fotografico?
Mi sono innamorata della città e volevo raccontare la sua storia.
Faccio un passo indietro, comincio dall’inizio.
Quando sono tornata in Ucraina per la prima volta avevo 19 anni. È stato dopo la caduta del comunismo, quando ho avuto i soldi per tornare. Avevo appena finito l’università e ho iniziato ad andare a trovare mia nonna ogni anno, ero molto legata a lei. Cominciavo a muovere i primi passi da fotografa. In quel periodo iniziavo a scoprire le riprese per strada, era qualcosa di nuovo per me, perché all’università ero molto affascinata dalla possibilità di creare storie di fantasia, di realizzare scenografie; vestivo tutti i miei compagni di classe, inventavo strani scenari, un po’ come quando dipingevo, ma cercavo di farlo con le fotografie. A quel tempo uscivo con un ragazzo che viaggiava molto e quando sono andata in Sud America con lui, in Brasile, mi sono innamorata della possibilità di fare foto per strada. Avevo 25 anni, giravo con la mia macchina fotografica e riprendevo quello che vedevo. Quando ho cominciato a farlo in Ucraina, andando in giro a catturare le cose, ho capito che era una cosa istintiva, molto chiara. All’epoca scattavo e basta, non avevo in mente alcun progetto particolare. Pian piano, maturando come artista ho iniziato a capire. Il primo grande progetto realizzato in Ucraina è stato Gidropark, su un parco di Kiev che frequentavo da bambina. È stato il mio primo lavoro in serie, nel senso che non scattavo ovunque, ma mi concentravo su un luogo, su una storia. Da quel momento in poi ho avuto la sensazione che tutto quello che avevo fatto prima si fosse esaurito. Ho scoperto che mi piace lavorare in serie, mi piace sviluppare un’idea, che sia immaginaria o di documentazione.
Quando ha visitato Odessa per la prima volta?
Sono andata a Odessa per la prima volta nel 2003 e ho letteralmente perso la testa. Pensavo: “Cosa sta succedendo? È come un sogno”. Ma nel 2004 mia nonna è morta e quell’estate sono rimasta a Kiev, così ho iniziato a lavorare a Gidropark. Dopo aver ultimato Gidropark e aver iniziato a lavorare ad altri progetti, ho avuto due figlie e sono successe un sacco di cose. Alla fine sono tornata a Odessa dieci anni dopo, nel 2013, e non sapevo bene che cosa avrei fatto lì. Mio marito non poteva venire con me, ci sono andata con un’amica che non aveva mai visitato l’Europa dell’Est, io non conoscevo bene Odessa perché ci ero stata solo per tre giorni dieci anni prima. Scattavo in bianco e nero, camminavo, e ho iniziato a cercare di capire cosa volevo fare. Mi è stato chiaro quando sono tornata a casa e ho sviluppato i rullini. Mi sembrava evidente che volevo raccontare la storia della città, ma non ero sicura di quale fosse. In seguito, dopo l’invasione della Crimea e la sua annessione, ho avuto la curiosità di conoscere tutti questi giovani soldati dell’Accademia militare di Odessa. In qualche modo il progetto ha preso forma seguendo un andamento sporadico.
Le donne sono spesso protagoniste delle tue opere. I loro corpi sono sensuali e consapevoli, mai volgari. Come ti avvicini ai tuoi soggetti?
Amo le mie protagoniste femminili, sia quelle che compaiono nei miei lavori più concettuali e di fantasia, sia quelle che vedo per strada. Credo di essere attratta da queste donne e voglio mostrarle come sono: potenti ma vulnerabili. Le immagini devono essere oneste ma non necessariamente di questo mondo, cerco sempre elementi onirici da aggiungere alle storie.
Ti muovi tra pittura, fotografia, video: come scegli il linguaggio per condurre la tua ricerca artistica?
Credo che le fotografie emergano prima nella mia mente. Mi sembra di lavorare sempre in serie. Trovo un soggetto o un progetto e mi ci dedico per un po’. Quando inizio un dipinto il processo è molto organico, mi siedo e inizio a lavorare. La maggior parte delle mie idee nasce dai sogni o dalle mie letture, che fanno scattare qualcosa in me. I film sono un po’ più complicati. È un processo più lungo. Prima l’idea, poi la ricerca, poi la pre-produzione. Richiedono molta più preparazione.
In УYY hai messo insieme fotografia, disegno e pittura: come hai costruito questo libro?
Allora, stranamente УYY è la pecora nera di tutti i miei progetti, perché ho sempre voluto realizzare un libro che raccontasse davvero la storia di me, di come io vedo il mondo. Così, quando Luca Reffo e Francesca Todde di Départ pour l’image mi hanno contattato dicendomi che volevano fare quel tipo di libro, è stato molto emozionante, perché era qualcosa a cui pensavo da tanto ma che non avevo ancora mai realizzato. Ed è molto difficile farlo da soli, per cui è bello imbattersi in qualcuno che arriva, guarda il tuo materiale e dice “ok, metterò insieme questo tuo mondo”. УYY è stata una creazione di Luca e Francesca. Avevano un’idea molto chiara di questo libro onirico che mostrava i diversi aspetti della mia pratica. E hanno fatto un ottimo lavoro!
Come li hai conosciuti? Si sono rivolti a te come fotografa o sapevano già che eri un’artista multiforme? Come hai condiviso con loro i materiali per creare un libro così complesso?
Francesca è una fotografa e credo che conoscesse il mio percorso dai tempi dell’università, e così i miei primissimi lavori. Ed è stato interessante perché 16 anni fa, quando ero incinta di Sasha – a quel tempo lavoravo molto nella moda – ho fatto un progetto con Antonio Marras, che a quel tempo disegnava per Kenzo. Alla fine siamo diventati amici, perché abbiamo fatto credo sei stagioni per Kenzo, e abbiamo lavorato in Cina, in Giappone, in Sud America. È stato un lavoro fantastico, sono diventata molto amica di lui e di sua moglie Patrizia. Mi hanno detto: “Senti, vogliamo fare un progetto artistico: Dieci anni di Antonio Marras. Vogliamo farlo con te e vogliamo che diventi un libro”. Così sono andata in Sardegna e abbiamo scattato per quattro giorni: hanno reclutato diversi personaggi, modelli, persone anziane, giovani, e hanno frugato in tutti i loro archivi. Abbiamo realizzato un bellissimo libro con i disegni di Antonio e le mie foto. Credo che Francesca lo abbia visto anni fa. Quando mi hanno scritto, avevo appena finito Odesa, che sarebbe andato in stampa dopo qualche mese. E onestamente ho pensato: “Ok, ci sono questi due giovani artisti italiani che hanno molto talento, ho guardato il loro lavoro e ho pensato: “Wow!”. La loro estetica è bellissima, l’idea è bellissima. Ho realizzato che volevo farlo, così sono andata a Milano a incontrarli e mi sono piaciuti molto come persone e ho detto “bene, facciamolo!”. Ma non credevo che qualcuno avrebbe mai visto questo libro. Ero convinta che sarebbe stata una cosa piccola, con il mio strano mondo dentro. Ho lavorato a stretto contatto con loro per l’impaginazione, siamo andati avanti e indietro, ma finché non vedi il lavoro vero e proprio non puoi farti un’idea chiara di quello che sarà. Poi l’estate scorsa, verso la fine di luglio, ero in Europa con la mia famiglia e loro mi hanno detto: “Ho sentito che sarai a Parigi, organizziamo un book signing“, ma a quel punto non avevo ancora visto il libro. Poi mi scrivono e mi dicono “abbiamo un book signing a Le Bal”, e io dico “Le Bal, la migliore libreria di Parigi, come avete fatto a organizzare l’evento lì?”. Così arrivo a Parigi, vado da Le Bal e non avevo ancora visto il libro. Arrivo e Francesca mi porge il libro e per me è stato letteralmente uno shock. È così bello. È stata un’esperienza incredibilmente liberatoria. Inoltre, ho sentito che siamo entrati in sintonia e che sono davvero riusciti a raccontare la mia vicenda artistica. Penso che abbiano fatto un ottimo lavoro.
È incredibile: due libri nello stesso periodo! Hai detto che a un certo punto hai capito di voler lavorare in serie, perché?
La penso ancora così, è interessante. Ma poi c’è un’altra parte del mio cervello che vuole incasinare tutto, e vuole mettere insieme un mucchio di cose. È un modo di lavorare molto diverso, e penso che questo accada quando voglio fare collage, quando voglio creare immagini di fondo e dipingerci sopra. Però anche nei dipinti mi ritrovo a lavorare in maniera seriale. Sono un’autodidatta, una specie di artista outsider, non ho frequentato scuole di pittura, ho imparato da sola a disegnare e tutto il resto. Ho studiato solo fotografia. Ho frequentato due anni alla Parsons di New York prima di specializzarmi in fotografia. Il primo anno è stato una specie di anno di base, in cui ti insegnano tutto; il secondo anno ho studiato Graphic design, che in realtà mi ha aiutata molto, ora che ci penso. All’epoca, con i genitori immigrati e tutto il resto, mio padre diceva: “La fotografia non è una professione”. Nel 1991 la fotografia non era qualcosa che una donna avrebbe fatto.
Quindi tuo padre non voleva che tu diventassi una fotografa?
Non è che non volesse, era come se dicesse: “Come farai a guadagnarti da vivere?”.
E cosa dice ora tuo padre?
Penso che sia molto orgoglioso di me.
Guardando le tue creazioni, i tuoi dipinti e i tuoi disegni, sembri un’artista multidisciplinare, sarebbe limitante parlare di te solo come di una fotografa.
Trovo che molte volte le persone abbiano bisogno di inserirti in qualche categoria, ma io non penso più a me come a una fotografa. È da molto tempo ormai che mi piacciono tanti modi diversi di esprimermi, tanti modi diversi di lavorare.
Le immagini di Beware, my lovely mi ricordano le opere di Felice Casorati e Balthus, quali sono i tuoi artisti preferiti e quali giovani artisti segui?
I miei artisti preferiti sono Francis Picabia, Picasso, Francis Bacon, Man Ray, Paula Rego, Diane Arbus. Tra gli artisti di oggi amo il lavoro di Mamma Andersson, Jockum Nordstrom, Bill Hanson, David Noonan, Philip-Lorca diCorcia.
Sembra che i testi e le parole abbiano una certa importanza nel tuo lavoro: hai pubblicato il libro Odesa con poesie del poeta ucraino Ilya Kaminsky, e i titoli delle tue opere sono sempre evocativi. Come scegli questi titoli, come Beware, my lovely?
È una cosa buffa, perché tutti i titoli dei miei dipinti vengono da film noir o da libri. Tutti i quadri hanno titoli di film noir: Obscure, Famous.
Hai una routine di lavoro? Se sì, qual è?
Viaggio molto, quindi è difficile avere una routine, ma quando sono a casa vado nel mio studio di pittura il più possibile. Prendo un caffè lungo la strada, scrivo sul mio diario e poi inizio a lavorare in studio, soprattutto sui dipinti.
Tu sei anche regista, hai contribuito a costruire l’immagine di un gruppo iconico degli anni ’90 come gli Smashing Pumpkins, come gestisci il lavoro creativo con i musicisti?
È stato tanto tempo fa, avevo vent’anni ed ero molto entusiasta di fare arte. È stato un periodo divertente per la musica, pieno di sperimentazioni. Sono felice di aver potuto realizzare dei video a quei tempi.
Sai già qual è il tuo prossimo progetto?
Sto finendo il mio nuovo libro, Malanka, che uscirà nella primavera del 2024 per le Edition Patrick Frey, e ne sono entusiasta. Sto anche lavorando a una nuova sceneggiatura per un cortometraggio e a una nuova serie di dipinti. In questo momento vorrei solo tornare in Ucraina e mettere i piedi per terra.
Where the Sidewalk Ends 2019 watercolor on paper 30” by 66”
Play Boy Bunny Odesa ,2019
The Wise Owl ,2004
On the Ship, Odesa 2016
Boy with Bear, Malanka ,2019
Warrior Girls # 1, 2021
Anya in December,Odesa 2018
In the Middle of Nowhere, Odesa 2016
Tris and Ania, from Mystery of a Memory , Kyiv 2019
Ania sunbathing, from Mystery of a Memory , Kyiv 2019
Sasha at Evgeny’s Studio, Odesa 2018