Alessandro Penso

Se osserviamo i tuoi ultimi progetti notiamo che hai dedicato molto spazio alle situazioni di migrazione del mondo. Come e perché hai deciso di occuparti proprio di queste tematiche?

Guidato dalle esperienze sociali e personali, ho subito compreso che la tematica della migrazione necessitava di essere approfondita in modo diverso. Così, questa tematica mi accompagna sin dai miei primi passi come documentarista.

Appartengo a una generazione in cui i ricordi della guerra erano ancora vivi nel tessuto familiare, tramandati dai nostri nonni. Ero solo un bambino, ma le scene del crollo del muro di Berlino e dell’arrivo della nave Vlora sulle coste italiane sono immagini che sono rimaste impresse nella mia mente e che per anni hanno cercato una risposta.

 

Il tuo lavoro sembra essere mosso da una volontà di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulle ingiustizie dei confini dell’Europa e non solo, quanto credi sia importante lavorare in questa prospettiva?

A mio avviso, i media per anni hanno affrontato in modo superficiale queste tematiche, il che alla lunga ha condotto a un fallimento dell’informazione. Invece di adempiere al proprio compito di rendere la società consapevole delle complesse dinamiche che si celano dietro a tali fenomeni, i media hanno contribuito a creare una spaccatura sociale. Questo è stato alimentato da una politica populista e dalla diffusione virale di fake news sui vari social media.

Credo sia fondamentale mostrare ciò che accade nel territorio europeo, poiché questo riguarda direttamente noi. Non si tratta più semplicemente di una storia di migrazione, ma diventa una narrazione di conflitto sociale.

Con il progetto Life on the edge: migrants in Italy hai seguito anche la situazione italiana, ci vuoi raccontare di questa tua esperienza?

Il progetto nasce in seguito alla rivolta di Rosarno del 2010, un evento significativo che ha scosso le fondamenta della società italiana. Dopo che due lavoratori stagionali di origine africana sono stati feriti con colpi d’arma da fuoco, si sono scatenate proteste da parte dei migranti, seguite da una violenta reazione della popolazione locale e dall’intervento della polizia. Nel frattempo, la politica ha condannato gli episodi come conseguenza di un’eccessiva ospitalità da parte del governo italiano.

L’intenzione era quella di raccontare come vivono i migranti nel nostro paese, le difficoltà burocratiche che li portano a vivere in un limbo istituzionale e le conseguenze delle politiche adottate. Il percorso è stato lungo e doloroso, poiché ho trovato un Paese completamente incapace di gestire la situazione.

Il governo non ha mai messo in atto un vero e proprio piano di integrazione e il numero di persone che vivono in condizioni di illegalità e grave precarietà è salito alle stelle. Le decisioni politiche hanno favorito un approccio allarmista, con la creazione di Centri di Accoglienza Straordinaria dove i migranti possono rimanere bloccati per anni in attesa che le loro domande vengano esaminate. Questi centri costituiscono la stragrande maggioranza delle strutture di accoglienza e non forniscono servizi di supporto come corsi di lingua o possibilità di integrazione. Una volta prese decisioni sulle loro richieste, i richiedenti escono dal sistema e le cose diventano ancora più difficili.

Molti, indipendentemente dal fatto che la loro richiesta venga accolta o meno, finiscono per vivere in occupazioni abusive e insediamenti informali, alcuni dei quali sono diventati ghetti dove la la situazione è terribile. Per sopravvivere, sono spesso costretti ad accettare lavori pagati una miseria, come nel settore agricolo, dove guadagnano appena 3 euro l’ora. Le recenti statistiche smentiscono l’idea di “invasione”, ma per molti italiani che non sono ancora abituati a vivere fianco a fianco con i migranti, questa idea sta crescendo, sostenuta da una politica sempre più basata sulla razza e ora da una coalizione di governo che coinvolge l’estrema destra, la quale ha rifiutato il sostegno europeo e ha tagliato i pochi programmi di sostegno esistenti per migranti e rifugiati.

Nei tuoi progetti hai sempre seguito in prima linea il percorso dei migranti, quali sono le principali difficoltà che hai incontrato durante questi viaggi? C’è stato un episodio in particolare che ti ha segnato?

Le difficoltà che ho incontrato sono cambiate nel corso degli anni. Quando ho cominciato, è stata molto dura: dovevo entrare in situazioni al limite. La maggior parte dei migranti era diffidente e spaventata dall’idea di essere fotografato, temendo di poter essere denunciati. Altri aspetti riguardavano la criminalità, che operava offrendo alloggi, lavoro in nero e rotte, rendendo spesso impossibile documentare. Tuttavia, non posso dire che lo Stato sia stato da meno: più volte ho ricevuto minacce, fermi temporanei e aggressioni in diversi paesi europei.

Dopo il 2015, la situazione è cambiata con l’arrivo di un milione di persone in Europa. Questo ha modificato la gestione dei flussi migratori, attirato l’attenzione dei media e visto la nascita di organizzazioni umanitarie scosse dalle tragedie. Quando sono tornato in Grecia e ho visto le stesse spiagge, dove prima mi veniva impedito di lavorare, gremite di volontari, mi ha fatto ben sperare. Qui il lavoro si era semplificato e raccontare le tragedie in mare e in frontiera diventava accessibile grazie all’attenzione della società civile. Purtroppo, poco dopo, sono seguite la creazione dei muri e l’utilizzo dei migranti come arma di ricatto verso l’Europa, che ha azzerato i progressi fatti e piano piano si sta tornando alla situazione passata, dove invece di affrontare il problema si cerca di nasconderlo.

Avrei molti episodi da raccontare che mi hanno segnato profondamente, ma vorrei probabilmente narrare quello che più mi ha fatto sentire impotente.

Ero a Lesbos nel 2015. In quel periodo arrivavano fino a 800 persone al giorno. Avevo appena deciso di riposarmi dopo una dura giornata di lavoro; era notte ed stava piovendo. Ad un certo punto ho udito delle urla provenire in lontananza. Si scorgeva un gommone sgonfio che arrivava con un gruppo di persone. Ho corso verso quella direzione per vedere se qualcuno aveva bisogno di aiuto. All’improvviso, un uomo accompagnato dalla moglie e dalla figlia si è gettato in ginocchio, indicando il mare e battendosi sulla nuca con la mano. Non capivo cosa mi stesse dicendo; era sotto choc, così ho preso la macchina e li ho accompagnati a un tendone di emergenza gestito da volontari.

Lì ho cercato un mediatore culturale, che mi ha dato la notizia: l’uomo aveva perso in mare suo figlio di 5 anni, trascinato via da un’onda che aveva colpito il gommone. Ho cercato di chiamare la guardia costiera e ho cercato più volte di convincerli a uscire in acqua, ma ogni tentativo è stato vano. Ho rincontrato la famiglia al porto di Lesbos; venivano trasferiti ad Atene. Il pensiero che quel bambino, per noi, non fosse mai esistito ancora oggi mi infonde un grande senso di impotenza come essere umano.

Qualche anno fa hai realizzato il progetto itinerante The European Dream- Road to Bruxelles, come hai avuto l’idea di realizzare una mostra in un container trasportato da un camion? Pensi che oggi potrebbe essere utile riproporre un progetto di sensibilizzazione di questo tipo?

L’idea nasce per contrastare l’ascesa del populismo. Avevo notato una tendenza dei politici a utilizzare argomenti come la migrazione per ottenere il potere. La paura è un’emozione incontrollabile. In quel periodo avevo ricevuto riconoscimenti per il mio lavoro, pubblicato su varie testate internazionali e nazionali, ma sentivo che non era sufficiente. Mi chiedevo chi fossero i miei lettori e se i miei messaggi arrivassero a tutti.

Al tempo c’erano le prime avvisaglie di una politica populista, che usava la tematica della migrazione non per dare risposte, ma per spaventare e dividere. Così nasce l’esigenza di portare il mio lavoro in quei luoghi dove la migrazione viene vissuta, dove si respira il disagio di una cattiva gestione, oltre che nei luoghi di potere dove vengono prese le decisioni. Il camion, oltre a permettermi di avere una mostra itinerante e di poter raggiungere diversi luoghi, ha anche un valore simbolico perché è il principale mezzo di trasporto usato in Europa per attraversare i confini.

Credo che sia assolutamente necessario riconnettersi con il pubblico, che purtroppo con i social media ha visto aumentare la spaccatura culturale.

Oggi molte persone scelgono di essere informate soltanto tramite gruppi di messaggistica come Telegram, spesso da canali che non sono giornalistici ma politici, dove arrivano notizie fuorvianti. Inoltre, mi preoccupa l’idea che non si scelga più di leggere le notizie, ma che con una notifica si venga attratti da informazioni che vengono lette distrattamente, senza avere la possibilità di approfondire.

Per questo credo che compiere azioni fotografiche/informative accessibili a tutti possa essere rappresentare un occasione di dialogo.

BIOGRAFIA

Alessandro Penso, nato in Italia, ha studiato psicologia clinica all'Università La Sapienza di Roma. Ha poi proseguito gli studi in fotogiornalismo presso la Scuola Romana di Fotografia e Cinema, dove ha ricevuto una borsa di studio. Alessandro è profondamente impegnato su questioni sociali, e negli ultimi anni si è concentrato sul tema dell'immigrazione nel Mediterraneo. Recentemente, ha realizzato lavori sui centri di detenzione a Malta, sulla situazione dei lavoratori migranti nel settore agricolo nel sud Italia e sui giovani bloccati in un limbo in Grecia.

Motivato dal desiderio di sensibilizzare sulle ingiustizie ai margini dell'Europa, il lavoro di Alessandro raffigura coloro che subiscono episodi di xenofobia, razzismo e violenza. Il suo lavoro dalla Grecia è stato il fulcro di una grande mostra personale intitolata "The European Dream: Road to Bruxelles", che ha viaggiato attraverso Grecia, Italia, Francia, Svizzera e Belgio, dove è stata esposta al Parlamento Europeo.

Alessandro collabora regolarmente con testate italiane e internazionali, tra cui: The International Herald Tribune, TIME, The Washington Post, Businessweek, The Guardian, BBC, Human Rights Watch, L’Espresso, D di Repubblica e Vanity Fair Italia.

Ha ricevuto premi da World Press Photo; da Magnum Foundation Emergency Fund Grant; da Getty Editorial Grants; da Burn Magazine Emerging Photographer Fund; e da Terry O'Neill Tag Award. Le immagini di Alessandro sono state esposte in festival di fotografia in Europa, e conduce regolarmente workshop e seminari.

BIOGRAFIA

Alessandro Penso, nato in Italia, ha studiato psicologia clinica all'Università La Sapienza di Roma. Ha poi proseguito gli studi in fotogiornalismo presso la Scuola Romana di Fotografia e Cinema, dove ha ricevuto una borsa di studio. Alessandro è profondamente impegnato su questioni sociali, e negli ultimi anni si è concentrato sul tema dell'immigrazione nel Mediterraneo. Recentemente, ha realizzato lavori sui centri di detenzione a Malta, sulla situazione dei lavoratori migranti nel settore agricolo nel sud Italia e sui giovani bloccati in un limbo in Grecia.

Motivato dal desiderio di sensibilizzare sulle ingiustizie ai margini dell'Europa, il lavoro di Alessandro raffigura coloro che subiscono episodi di xenofobia, razzismo e violenza. Il suo lavoro dalla Grecia è stato il fulcro di una grande mostra personale intitolata "The European Dream: Road to Bruxelles", che ha viaggiato attraverso Grecia, Italia, Francia, Svizzera e Belgio, dove è stata esposta al Parlamento Europeo.

Alessandro collabora regolarmente con testate italiane e internazionali, tra cui: The International Herald Tribune, TIME, The Washington Post, Businessweek, The Guardian, BBC, Human Rights Watch, L’Espresso, D di Repubblica e Vanity Fair Italia.

Ha ricevuto premi da World Press Photo; da Magnum Foundation Emergency Fund Grant; da Getty Editorial Grants; da Burn Magazine Emerging Photographer Fund; e da Terry O'Neill Tag Award. Le immagini di Alessandro sono state esposte in festival di fotografia in Europa, e conduce regolarmente workshop e seminari.

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