Alessio Mamo

Tu sei un fotografo che ha cominciato il suo lavoro all’inizio del nuovo millennio, pensi che da quel momento a oggi sia cambiato il ruolo di questa professione?

Il mio ambito è il fotogiornalismo. Le nostre immagini devono informare, ma anche fungere da testimonianza per il futuro. I mezzi e le piattaforme cambiano e continueranno a evolversi nei decenni, ma la missione del fotogiornalista rimane sempre la stessa, da Robert Capa fino a oggi: raccontare le storie davanti al nostro obiettivo in modo fedele e onesto.

 

Siamo abituati a vedere come tutti i canali digitali svelino in diretta i fatti e ciò che accade nel mondo. Dal punto di vista dell’informazione ritieni che siamo tutti esposti a un maggior rischio di superficialità?

Direi che il citizen journalism è il benvenuto. Spesso si tratta di riprese amatoriali fatte da persone che assistono a un evento, e queste immagini sono spesso le prime a informare. In tempo reale, aiutano molto a comprendere i fatti, soprattutto quando provengono da testimonianze uniche. Il rischio, però, è la possibilità di manipolare e strumentalizzare questi video, attribuendo loro significati diversi proprio perché decontestualizzati dalla situazione in cui sono stati girati. Di certo, servono approfondimenti. Credo che in Italia ci sia una crisi del settimanale o del mensile, gli unici strumenti capaci di raccontare non solo notizie, ma storie approfondite, grazie al loro approccio più lento e riflessivo.

 

Oggi si fa fatica a comprendere la differenza tra comunicare e informare, qual è il tuo punto di vista?

Penso che sia un tema fondamentale, soprattutto considerati i tempi di conflitto che stiamo vivendo. Non tutti sono in grado di informare, ma tutti possiamo comunicare. Per informare, bisogna avere conoscenza dei luoghi e del contesto, possibilmente parlare la lingua del posto, e aver vissuto anni in quell’ambiente per superare le barriere di pregiudizi e stereotipi, che invece vengono immediatamente innalzate da chi, oltre quelle barriere, non sa e non vuole vedere.
Ecco, nel giornalismo vedo troppi comunicatori e pochi che veramente informano. La crisi del giornalismo è forse anche questo.

 

Durante i tuoi viaggi sei stato testimone di numerosi conflitti, e quindi di tante storie di persone che hanno dovuto lasciare la propria terra senza sapere dove andare. Se ti chiedessimo di raccontarcene una, quale sarebbe?

Forse la storia a cui sono più legato è quella di Somar. Lo conobbi ad Amman, mentre si preparava ad affrontare l’avventura più difficile della sua vita: attraversare i Balcani insieme alle sue sorelle più giovani per raggiungere il fratello in Germania. Quando mi chiese se volessi documentare il loro viaggio con la mia macchina fotografica, non esitai nemmeno un istante. Era settembre 2015, in piena crisi della cosiddetta rotta balcanica, dove milioni di rifugiati, per lo più siriani in fuga dalla dittatura di Assad, come Somar e le sue sorelle, cercavano di raggiungere l’Europa a ogni costo e con ogni mezzo. Molti non ce l’avrebbero fatta, e il mar Egeo sarebbe diventato un altro cimitero, come il Mediterraneo.

Più di 4.000 chilometri attraversati in 44 giorni, grazie a lunghe camminate ma anche viaggi su bus e treni, prima di arrivare nella cittadina tedesca vicino a Stoccarda, dove viveva Mousab, il quarto fratello. Da allora io e Somar siamo diventati amici intimi. Lui è venuto a trovarmi in Sicilia diverse volte, e io ho fatto altrettanto. Ma la prossima sarà l’occasione più speciale: a giugno, Somar si sposerà, e ovviamente sarò io il fotografo ufficiale del loro matrimonio.

Con il tuo progetto African Ghosts in Sicily racconti l’alienazione dei migranti che arrivano sulle nostre coste. Pensi che la fotografia possa contribuire a cambiare la percezione pubblica sui migranti e sui rifugiati? E se sì, in che modo?

Questa è una domanda complessa. Chi fa il mio mestiere e si occupa di temi come quelli dei rifugiati sente un forte desiderio di contribuire, attraverso immagini e racconti, a cambiare una percezione pubblica che spesso non ha occhi per vedere né orecchie per ascoltare. E allora tutto diventa frustrante, e ti chiedi quale sia il senso del tuo lavoro. La risposta che mi do sempre, ogni volta che entro in crisi, è che questa percezione sarebbe infinitamente peggiore se non esistesse un certo tipo di giornalismo: quello che si impegna a raccontare le questioni sociali e le violazioni dei diritti umani.

BIOGRAFIA

Alessio Mamo è un fotografo siciliano che vive a Catania ed è collaboratore regolare di The Guardian.

Ha iniziato la sua carriera nel mondo del fotogiornalismo nel 2008, concentrandosi su questioni sociali, politiche ed economiche contemporanee. Si occupa principalmente di temi legati allo sfollamento dei rifugiati e alla migrazione, iniziando dalla Sicilia per poi estendere il suo lavoro ai Paesi del Medio Oriente e, più recentemente, ai Balcani.
È anche fotografo collaboratore per Medici Senza Frontiere e l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR).
Due volte vincitore del World Press Photo (2018-2020), nell'ultimo anno ha seguito per The Guardian il conflitto in Ucraina.

BIOGRAFIA

Alessio Mamo è un fotografo siciliano che vive a Catania ed è collaboratore regolare di The Guardian.

Ha iniziato la sua carriera nel mondo del fotogiornalismo nel 2008, concentrandosi su questioni sociali, politiche ed economiche contemporanee. Si occupa principalmente di temi legati allo sfollamento dei rifugiati e alla migrazione, iniziando dalla Sicilia per poi estendere il suo lavoro ai Paesi del Medio Oriente e, più recentemente, ai Balcani.
È anche fotografo collaboratore per Medici Senza Frontiere e l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR).
Due volte vincitore del World Press Photo (2018-2020), nell'ultimo anno ha seguito per The Guardian il conflitto in Ucraina.

Condividi