Andrea Francolino

La tua pratica è nomadica e si svolge principalmente in esterno, a contatto con la terra: hai bisogno di camminare per catturare la casualità di queste spaccature, sintomatiche di un pianeta vivo, che continua a muoversi, e di fenomeni tutt’altro che casuali, sebbene al di fuori dal nostro controllo. Con i calchi delle impronte di crepe, la tua arte finisce a misurare e misurarsi con la nostra dimensione esistenziale, rivelando lo spazio minimo di incidenza del nostro corpo in questo pianeta, e la nostra impotenza davanti certi fenomeni inesorabili. Come con la pandemia. Una condizione che ha costretto il campo d’azione all’ambiente della tua casa.

Poi un giorno affacciandoti alla finestra hai visto una crepa, lì sulla soglia fra lo spazio domestico e lo spazio del mondo che ci era temporaneamente negato. Tale visione è stata una folgorazione, in quanto la manifestazione di questo particolare momento storico. Ci racconti quali riflessioni ha poi attivato questa epifania estetica?

La crepa è la chiave, è la risposta oltre che l’origine. Ha un’incredibile capacità di essere sempre e comunque attuale, come in questo caso. Il giorno in cui mi sono trovato confinato in casa, rinchiuso, stavo portando avanti un lavoro che prevedeva che fossi errante in diversi luoghi a ricalcare crepe con polvere di terra. Questo era il seguito di un primo percorso temporale di un anno, svolto invece con polvere di cemento recuperato. Impossibilitato a muovermi, mi sono sentito inerme su come ultimare questo lavoro.

Ma la crepa non è per me da considerarsi solamente secondo l’accezione più limitata del termine di rottura: nella mia ricerca la crepa è un innesco che genera infinite riflessioni, che mi possono condurre verso molteplici discipline, che solo in seguito trovano sempre un senso, pur seguendo approcci diametralmente opposti che oscillano dall’esistenziale a quello scientifico.

In quei primi giorni di lockdown, affacciandomi alla finestra per vedere cosa produceva in termini di desolazione cittadina, ho trovato lì sul davanzale una crepa. Allora ho pensato che oltre ad essere l’alternativa per ultimare il percorso annuo in polvere di terra senza strozzarlo a causa della pandemia, quella crepa poteva diventare allo stesso tempo la testimonianza di un momento storico, all’interno dell’opera.

Così, quasi tutti i giorni e quando la Natura mi permetteva di poterlo fare ne ho fatto il calco, in diversi momenti della giornata, lì sulla soglia, fra me e il mondo. Così, il lavoro iniziato quasi un anno prima in modo del tutto differente in un errare temporale e materiale presenta ora, nel suo finale, una traccia ripetuta di quella che è stata la realtà temporale “sospesa” dei giorni del lockdown.

Un periodo che come ogni percorso che eseguo, documento con un libro di avvenuta realizzazione, corredando ciascuna traccia con una foto, la posizione geografica, la data e l’orario. Così ho fatto anche per la crepa sul davanzale.

Un dettaglio importante avvenuto nel dietro le quinte: in questo lavoro c’è la crepa della crepa, il materiale fotografico di corredo di una serie di calchi/momenti si è danneggiato probabilmente per una falla nel computer. Ho deciso però comunque di cogliere anche questi errori, come jpg rovinati, sintomi di vulnerabilità non solo materica, ma anche tecnologica.

Un’altra verità di questo tempo mi è sembrato lecito valorizzare. Questo secondo capitolo è ad oggi ancora un lavoro inedito.

Da questa descrizione del tuo lavoro e del tuo approccio emerge una consapevolezza del fare artistico e delle sue ragioni. Questo periodo di sospensione, crisi e incertezza ha portato molti a riflessioni in particolare sul proprio ruolo all’interno del contesto sociale e in rapporto alla collettività. Ad oggi, che funzione ha la tua pratica?

Nella riapertura dopo il primo lockdown ho realizzato alcuni calchi al confine, isolato volontariamente nella mia intimità e in una concentrazione quasi monastica a stretto contatto con la natura. Questo mi ha portato ad affrontare nell’errare temi come il limite, e a riflettere nuovamente sul rapporto fra l’evoluzione dell’uomo e la meraviglia della natura, fra senso delle cose e senso del creato, fra l’essere umano del fare e la natura dell’essere.

La crepa ha generato tanti lavori, che non necessariamente si sono palesati con la rappresentazione di questa. Da ultimo, il lavoro delle bandiere che ho esposto al Museo del Novecento a Firenze: una riflessione su quale potesse essere la bandiera che accomuna tutta l’umanità, che si è tradotta in bamboo, polvere di terra e un telo di juta.

Lo stesso telo che serve a proteggere la terra dall’erosione, dalla rottura generata dalla violenta manifestazione climatica. La crepa c’è anche lì, ma latente: anche se non si vede, emerge nella frattura tra l’uomo e l’equilibrio del pianeta che si manifesta con il cambiamento climatico.

Sono una persona che tende ad aprire parentesi di continuo, e questo si riscontra anche nella mia ricerca: il tema della crepa non mi pone dei limiti, ma diviene pretesto, che si apre continuamente a nuove possibilità ma con una capacità di rimanere sempre attuale, a prescindere dal momento storico in cui è.

Fondamentale per me poi è cercare di mantenere sempre una coerenza della mia ricerca e nel materiale, ad esempio con l’impegno per un impatto ecologico limitato che non condizioni negativamente il risultato finale dell’opera.

La crepa è un elemento concreto, con infinite possibilità all’interno, ma anche intorno. Non è negativa o positiva, ma può essere sia l’una che l’altra: manifestazione oggettiva che si oppone fra opposti, in modo universale. Perciò mi piace scatenare riflessioni, tramite essa. La crepa come apertura vista anche come possibilità di relazione. L’opera artistica deve poter aprirsi di significati e riuscire a scatenare commenti e riflessioni, che emergono nel pubblico come in un percorso ad infinitum rispetto a tematiche condivise da tutti noi.

 

VOCE: SU COSA STAI LAVORANDO ORA?

VITA&OPERE

Andrea Francolino (1979, Bari, Italia) vive e lavora a Milano.
La sua ricerca indagala fragilità e la vulnerabilità dell'essere umano e il rapporto dialettico trauomo e Natura. Nella sua pratica artistica sono fondamentali i temi ecologici,esistenziali e sociali.
Nel 2013 con l'opera Et onne tempo vince lo storico Premio San Fedele (Milano).
Sue mostre personali si sono tenute, fra le altre, presso Museo Novecento, Firenze (2020/2021), Spazio Contemporanea, Brescia (2020), Spazio aperto San Fedele, Milano (2018), Spazio Cordis, Verona (2018), nm>contemporary, Monaco (2017), Kristin Hjellegjerde Gallery, Londra (2014). Le sue opere sono conservate in numerose collezioni pubbliche e private tra cui, collezione AGI Verona, Volker W. Feierabend, Francoforte, Servais family collection, Brussels, fondazione San Fedele Milano, Fondation Francès, Parigi, Foster + Partners / Scott Resnick, Londra New York. È tra i fondatori di The Open Box (2015).

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Andrea Francolino (1979, Bari, Italia) vive e lavora a Milano.
La sua ricerca indagala fragilità e la vulnerabilità dell'essere umano e il rapporto dialettico trauomo e Natura. Nella sua pratica artistica sono fondamentali i temi ecologici,esistenziali e sociali.
Nel 2013 con l'opera Et onne tempo vince lo storico Premio San Fedele (Milano).
Sue mostre personali si sono tenute, fra le altre, presso Museo Novecento, Firenze (2020/2021), Spazio Contemporanea, Brescia (2020), Spazio aperto San Fedele, Milano (2018), Spazio Cordis, Verona (2018), nm>contemporary, Monaco (2017), Kristin Hjellegjerde Gallery, Londra (2014). Le sue opere sono conservate in numerose collezioni pubbliche e private tra cui, collezione AGI Verona, Volker W. Feierabend, Francoforte, Servais family collection, Brussels, fondazione San Fedele Milano, Fondation Francès, Parigi, Foster + Partners / Scott Resnick, Londra New York. È tra i fondatori di The Open Box (2015).

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