L’artista messicana Berenice Olmedo lavora su un’interessante – e forse non ancora abbastanza esplorata, intersezione tra arte, tecnologie mediche e biopolitica inevitabilmente connessa a queste.
La sua ricerca artistica muove infatti da una fascinazione per il corpo emarginato, umano e non, che l’ha portata a chiedersi chi decide gli standard di queste categorizzazioni di sano, normale o di disabilità.
Avendo seguito la sua pratica da alcuni anni, è stato un onore e un piacere visitare finalmente il suo studio a Città del Messico durante la settimana dell’arte lo scorso febbraio.
Così, anche per lo studio di questo mese riportiamo dal Messico, che si conferma una delle scene artistiche emergenti più interessanti da scoprire, in questo momento.
Berenice ci accoglie con il suo sorriso e tutta la sua spontaneità. Il suo studio si trova in un edificio multifunzionale, come scopriremo poi durante la nostra conversazione: come spesso accade nelle grandi metropoli, l’edificio è abitato da diverse attività, da un ragazzo che lavora il metallo, alla moda e persino all’allevamento di uova. L’artista ha un entusiasmo contagioso mentre ci accompagna nel suo ampio e luminoso studio e ci presenta alcuni dei suoi ultimi lavori e ricerche.
Accatastati in diversi scaffali, possiamo osservare quelli che lei chiama “rifiuti ortopedici”, ossia diverse protesi e altre estensioni o integrazioni destinate a “correggere” il nostro corpo. Queste vengono solitamente gettate nell’industria medica, con un evidente spreco di risorse e materiali plastici, che l’artista invece recupera per convertirli in forme strane, che possono ricordare feti, parti di organi o inquietanti presenze aliene.
Focalizzandosi sull utilizzo con questi strumenti medici che hanno già esaurito la loro funzione, l’artista li riassembla in una sorta di figure post-umane: a volte si trasformano in robot e nuove creature futuristiche, altre volte mantengono invece volontariamente la natura frammentaria di carcasse o gusci, in attesa di un nuovo ciclo vitale.
Come ci spiega Olmedo, nell’utilizzare questi materiali come medium artistico, l’artista vuole esplorare il possibile cambiamento di funzioni di queste estensioni o sostituzioni del corpo: tali dispositivi, creati per sostituire parti del corpo mancanti o per assistere ciò che viene percepito come malfunzionante, vengono riproposti così in forme estetiche nuove, per sfidare la nozione di deformità o inadeguatezza che caratterizza alcuni corpi. Riassemblando talvolta anche paradossalmente questi oggetti in configurazioni inaspettate, le opere di Olmedo ispirano una riconsiderazione dei corpi come integrità psicofisica fissa.
Attraverso questa esplorazione visionaria di topografie e tassonomie alternative del corpo, l’artista sfida infatti tutti i quadri ciseteronormativi consolidati, aprendo una questione rilevante su cosa sia la “normalità” o la “disabilità” di un corpo, su cosa significhi “salute” e “cura” e su chi stabilisca i criteri e il conseguente regime normativo di correzioni, modifiche e adattamenti imposti dai medici.
Tuttavia, quest’analisi è ancora più pertinente e potente in quanto nasce dagli avanzi di uno stato sociale in un luogo come il Messico dove, come purtroppo oggi in molti altri Paesi, vaste fasce della popolazione non hanno ancora un accesso adeguato al tipo di cure mediche, a una dieta sana e all’assistenza necessaria per mantenere tali standard. Ma c’è sempre l’industria dei trattamenti privati, che rende i corpi ancora più soggiogati al potere economico e politico dell’industria medica e farmaceutica, che tutti abbiamo avuto modo di sperimentare durante il periodo della pandemia.
Al momento della nostra visita, al centro della stanza c’erano alcune strane creature robotiche. Scherzando con noi, Olmedo ci racconta di essersi divertita molto a fondere e riassemblare le diverse parti che formano questi corpi, partendo da diversi stampi e test di protesi. Anche il materiale usato per la fusione appartiene all’industria medica, avendo alla fine utilizzato lo stesso silicone impiegato per i test di protesi e invasature. Ci confessa che in un primo momento non è stato facile capire come utilizzare creativamente questi materiali, ma ora sta lavorando a stretto contatto con gli stessi produttori professionali che producono per l’industria medica, modificando il loro processo abituale per esplorare nuove combinazioni.
Il processo di stampaggio di invasatura è in realtà un’arte vera e propria, che richiede una grande abilità da parte del protesista, poiché l’invasatura dovrà conformarsi perfettamente al moncone del paziente. Un modo per creare un’invasatura protesica è, ad esempio, il metodo della formazione di bolle: il materiale termoplastico dell’invasatura viene riscaldato in un forno a infrarossi o a convezione finché non inizia a formare una bolla. Questa bolla viene poi tirata su un calco positivo del moncone del paziente e lasciata indurire completamente, ottenendo un’invasatura che si adatta perfettamente ai contorni della persona con una vestibilità comoda e sicura. Per realizzare queste sculture, Olmedo ha applicato la stessa identica procedura, anche se ora sono destinate ad adattarsi ad altre parti in una nuova configurazione insolita ma rivelatrice.
Olmedo confessa che, come sfida successiva, vorrebbe trovare un modo per non essere vincolata in termini di colori a quelli attualmente utilizzati in campo medico, ma piuttosto in grado di controllarli e di giocare con i pigmenti e le gradazioni per rendere le sculture più vicine a un effetto epidemico, o piuttosto totalmente aliene a questo mondo.
La scelta della traslucenza, tuttavia, rimarrà probabilmente un elemento chiave costante sia materiale che simbolico per l’artista, vedendo un modo per abbracciare e incarnare la nozione di “divenire-impercettibile” di Gilles Deleuze e Félix Guattari come strategia di contrasto alla gestione della vita umana da parte delle società moderne.
Invitandoci ad avvicinarci poi al suo computer, ci mostra come stia iniziando a progettare le sue sculture utilizzando software medici professionali, che le permettono di esplorare ulteriormente le possibilità di ridisegnare questi dispositivi medici, così come le parti del corpo e le funzioni che essi assistono. L’artista ci spiega che finora ha dovuto formarsi da sola su questi complicati software, quindi sta ancora esplorando. Ha avuto la fortuna che alcuni amici li hanno condivisi con lei, ma sta ancora aspettando che la aiutino a navigare meglio in tutte le funzionalità.
Presentandoci l’archivio da clinica di riabilitazione di stampi per protesi, prese di prova o altri strumenti ortopedici, ci fa osservare anche come molti di essi riportino ancora il nome delle persone per cui sono stati realizzati. Questo spesso diventa anche il nome che l’artista dà alle sue sculture, come per le tre sculture del 2018 come Olga, che era ancora lì, Anastasia ed Efélide. In questo modo, le opere assumono una sorta di personalità, che le priva del loro aspetto asettico e della loro funzionalità originaria.
Osservando da vicino Olga ( tornata in studio da una mostra) è interessante notare come Olmedo si sia volutamente confrontata anche con strumenti realizzati per “correggere” le ortesi dei bambini. Nonostante la giocosità della superficie animata da cartoni animati per renderli meno spaventosi per il bambino, è inevitabile davanti a quest’opera fare i conti con una sorta di violenza su questi strumenti, fatti per “regolare” questi piccoli e giovani corpi, costringendo la loro esperienza del mondo e i loro movimenti in queste scomode gabbie corporee solo per renderli adeguati all’attuale standard medico e sociale di un corpo sano e normale.
Nella pratica di Olmedo tutti questi dispositivi medici e oggetti ortopedici si trasformano in nuovi corpi inquietanti, che spesso sfuggono alla “corretta” organizzazione e funzionalità delle parti del corpo, così come le concepiamo convenzionalmente. Olmedo vuole infatti presentare anche questa disfunzionalità come una possibilità, un’alternativa allo standard. Come ha commentato una volta in un’intervista: “Storicamente uomo-bianco, eteronormativo, adulto, abile – è stato privilegiato come norma universale rispetto alla quale si misura tutto il resto, rendendo donne, bambini, checche, disabili, animali, piante e molecole “altri”. Ma in quanto esseri fatti di tessuti e fluidi, dobbiamo strappare la nozione di corpo da una visione antropocentrica che pone l’uomo al suo apice e porta a considerare il corpo come un luogo di incontro con l’altro di quella categoria. Nel mondo che propongo non c’è lo stigma della disabilità, ma solo variazioni nel mondo che propongo, ma solo variazioni di esistenza, variazioni di movimento, variazioni di lentezza e velocità“.
Se ci pensiamo un attimo, però, è stato ormai scientificamente dimostrato come l’adattamento e la compensazione permettano agli organismi di riorganizzare spesso le loro funzioni intorno a qualche carenza, semplicemente potenziando altre abilità, sensi o funzionalità del corpo.
Queste mutazioni evolutive e adattative sono ancora poco contemplate dagli standard medici attuali, che preferiscono metodi più invasivi di risoluzione di questi deficit. Il lavoro di Olmedo sembra invece incoraggiare un’esplorazione positiva della riorganizzazione neurale, come opportunità di cambiamento, grazie alla plasticità intrinseca del nostro corpo e dell’organizzazione cerebrale nell’interazione con un mondo multisensoriale.
È davvero affascinante che l’artista cerchi di integrare nel suo lavoro anche veri e propri robot per l’ortopedia. Attivando un intero arsenale di conoscenze e dispositivi medici nel fare arte, l’arte di Berenice Olmedo ha il potenziale di immaginare a volte anche nuove soluzioni per nuovi possibili sviluppi, ma allo stesso tempo continua a interrogarsi criticamente sulla natura di ciò che è essere umano nel quadro delle possibilità di queste rivoluzioni tecnologiche.
Questo sarà il caso, ancora una volta, del nuovo progetto su cui si è attualmente concentrata, in preparazione di una Biennale in Brasile. Questa nuova serie di lavori seguirà una linea simile con la sua personale Hinc e Nunc, tenutasi nel 20222 alla Kunsthalle di Basilea, in Svizzera, dove l’artista presentò una costellazione di corpi di plastica trasparente dall’aspetto di bozzoli, realizzati con vari calchi di monconi di gambe.
In tale mostra Olmedo ha iniziato a esplorare come meccanizzare le sue opere per imitare alcune delle tecniche di recupero che le erano state insegnate durante un lungo periodo di convalescenza a letto, dopo un grave incidente d’auto avvenuto all’inizio di quell’anno: ha collaborato con uno scienziato giapponese per sviluppare un piccolo elemento robotico basato sulla terapia di elettrostimolazione che aveva ricevuto, per creare una macchina che stimolasse il movimento dell’arto-scultura in diversi punti, dando vita a un movimento idiosincratico che fa sentire questi oggetti vivi. Nel nuovo corpo di lavori, rivela che si concentrerà invece sul ritmo cardiaco, sulla meccanica, sulla dinamica e sugli interventi medici, concependo questi nuovi lavori in stretto dialogo con un cardiochirurgo.
Per concludere, questa conversazione sui progetti passati e attuali dell’artista ci fa capire come l’arte di Berenice Olmedo ci costringa a confrontarci con alcune importanti questioni riguardanti la normalizzazione e il controllo dei corpi nella nostra società, creando una potente antropoestetica distopica o visionariamente futurista, che sfida direttamente la biopolitica odierna intorno ai corpi, e tutti gli standard e le norme che li regolano senza comprensione empatia.
Olmedo ritiene la biopolitica come intrinsecamente connessa alle nozioni capitalistiche di sicurezza, salute ed efficienza, che sono necessariamente regolate da dinamiche di potere e di distribuzione ineguale di risorse e possibilità.
Il lavoro di Olmedo si impegna così in un commento critico sulle dimensioni politiche della disabilità, della malattia e dell’assistenza, incoraggiandoci a contemplare già una nozione in qualche modo positiva di “mostruosità”, vista come possibilità di un’evoluzione alternativa, analogamente a quanto anticipato da Derrida: “una figura del futuro, quella che può solo essere sorprendente, quella per cui non siamo preparati, vedete, è annunciata da specie di mostri. Un futuro che non fosse mostruoso non sarebbe un futuro; sarebbe già un domani prevedibile, calcolabile e programmabile. Ogni esperienza aperta al futuro è preparata o si prepara ad accogliere il mostruoso che arriva“.