Berlinde De Bruyckere: intervista all’artista

Features #17 — Marzo 2023

BERLINDE DE BRUYCKERE IN DIALOGO CON NICOLAS VAMVOUKLIS

 

Berlinde, la tua nuova mostra da Hauser & Wirth si intitola “A simple prophecy.”. Qual è la profezia in questo caso?

Il titolo è sempre un aspetto fondamentale nella mia ricerca perché deve rispondere alla domanda: “Di cosa si tratta?”. Nella mostra si possono vedere due gruppi di lavori: uno è legato ad “Arcangelo” e l’altro ai “Enclosed Gardens”. Entrambi affrontano temi religiosi. Cerco di approfondire queste idee e di renderle dei concetti umani, mostrando il loro valore e il loro possibile utilizzo.

Tutto quello che riguarda il divino, le profezie, è qualcosa di complesso e mai completamente accessibile alla mente umana. In questo senso, la parola “simple” del titolo, invece, vuole rimandare al mondo terreno, e quindi alla nostra dimensione di mortali. Mi incuriosisce collegare il divino e l’umano, il religioso e il profano.

 

Le profezie guardano al futuro. Ti senti ottimista riguardo a ciò che accadrà?

È difficile dire di essere ottimista, ma nonostante le difficoltà, direi che la nostra è un’epoca affascinante. Se si guarda al passato, ci sono sempre state oscillazioni sia a livello economico che socio-politico: quello che va bene oggi può andare male domani e viceversa. Nel mio lavoro cerco di dare un senso di speranza e unione, una sorta di invito a superare le situazioni, indifferentemente se siano gioiose o tristi. Abbiamo molti problemi da tenere in considerazione oggi: la pandemia, la guerra, il cambiamento climatico…

Ho sentito che molte persone non leggono più i giornali e non guardano più la televisione. Questa scelta di disconnettersi mi sembra molto strana. Quando non ci si relaziona con l’attualità e con ciò che accade intorno a noi, si vive in una grande bolla e si rischia di non essere più connessi al mondo. Penso che gli artisti siano necessari per dare una lettura dell’attualità, rispecchiando ciò che li circonda e fornendo punti di vista alternativi. Sta a voi decidere se guardare in quello specchio o distogliere lo sguardo.

Le opere di questa mostra indagano la ricerca umana sulla trasformazione, la trascendenza e la riconciliazione nell’ottica della mortalità dell’essere umano. Come si legano queste tre idee nella tua ricerca?

Se guardiamo le opere con questi concetti in mente, credo che si possa percepire quello che sto cercando di dire. È qualcosa di molto ovvio. Parlando di mortalità, questa figura distesa (“Liggende – Arcangelo I, 2022-2023”) non è stata concepita come un angelo morto. È sceso sulla terra perché stanco e completamente afflitto da tutte le nostre paure, problemi e segreti. Era troppo persino per un angelo. Adesso ha bisogno di un po’ di riposo per riprendersi e andare avanti.

La mia scelta di utilizzare vecchi materiali che hanno avuto una vita propria e si sono deteriorati nel tempo mette in evidenza le ferite che la natura, le epoche o l’intervento umano possono causare, invece di nasconderle. Tutto ciò ci ricorda l’impatto che abbiamo sul mondo materiale. In questo lavoro, la figura di cera e la sua base sono state “trattate” allo stesso modo. Hanno una consistenza identica e l’una continua nell’altra. Non è solo un modo per esporre l’angelo, ma anche il modo in cui le due parti diventano un’unica scultura.

Dall’altra parte, abbiamo i due “Arcangelo” che hanno un legame particolare con i basamenti; stanno sulle punte dei piedi in una posizione incerta, quasi precaria. Non si sa se stanno per spiccare il volo o se sono appena atterrati. Sta a voi decidere cosa vedere o sentire.

 

Una volta hai detto che lavorare in studio è come meditare. Una sorta di terapia. In che modo la pandemia ha influenzato il tuo modo di agire?

Questa nuova serie “Arcangelo” è nata proprio in quel periodo, quando ero rientrata nel mio studio e dovevo lavorare da sola, dato che non ci era permesso di lavorare in team. In quel momento ero molto lontana dall’aspetto figurativo nella mia pratica. Non avevo realizzato figure per un decennio: ero convinta di aver chiuso con quella pratica. La pandemia mi ha messo di fronte al mio corpo, ai suoi limiti e alla sua fragilità in modo schiacciante. Affrontare di nuovo la figura umana, in un modo o nell’altro, mi sembrava una necessità, così queste opere sono nate da questa riflessione.

 

Durante il mio primo lockdown in Italia, ricordo di aver postato su Instagram una foto della tua scultura “Spreken” che avevo scattato un paio di anni fa alla Biennale di Istanbul. Due persone sono nascoste sotto delle coperte, che sembrano una sorta di seconda pelle. Che cosa significa per te protezione?

Le opere “Spreken, 1999” e le cosiddette “Blanket Women” sono visivamente simili a quelle che abbiamo qui alla Hauser & Wirth. Alla fine degli anni ’90 ero interessata all’ambiguità del concetto di coperta. È un elemento universale di protezione e comfort, un riparo anche nelle peggiori circostanze, ma allo stesso tempo di oppressione e soffocamento, come accade nelle opere “Spreken, 1999”. I motivi e i colori di queste coperte sono riconoscibili e offrono un senso di intimità e familiarità. Anche nelle opere di “Arcangelo” le figure indossano un panno, ma si tratta di un calco in bronzo e piombo di pelle animale, dando vita a una lettura completamente diversa. La pelle, che un tempo proteggeva l’animale stesso come barriera degli organi vitali dal mondo esterno, qui è usata in modo inconsueto e ignobile. Ho modellato la pelle di mucca per ottenere un senso di pesantezza; una pesantezza che viene enfatizzata ancora di più dalla scelta del materiale, il piombo: un peso quasi eccessivo da sopportare. Un visitatore mi ha detto che, quando ha visto gli angeli, pensava di dover aspettare il momento in cui avrebbero gettato via la loro pesante stoffa per volare via. Tuttavia, credo che l’idea di protezione e conforto sia tuttavia presente anche in queste sculture. La loro resilienza e la mancanza di volti permettono al visitatore di proiettare il proprio fardello senza essere giudicati.

A proposito di protezione fisica o spirituale, vorrei sapere qualcosa di più sul tuo interesse per l’iconografia cristiana. Come affronti gli aspetti religiosi nella tua pratica?

L’affinità con l’iconografia cristiana risale alla mia infanzia, quando a scuola ero circondata da questi temi. Se all’inizio mi fermavo solo alle immagini, successivamente ho appreso gradualmente anche le storie che si celavano dietro di esse. Quelle icone spesso superavano la mia immaginazione per la loro brutalità e la loro franchezza delle loro narrazioni. Credo che queste caratteristiche mi abbiano aiutato a non rifuggire con la mia pratica artistica da ciò che può essere considerato sgradevole. L’attrazione per queste immagini si è, infatti, sviluppata sia dal semplice interesse estetico, dalla ricerca approfondita delle qualità artistiche di quelle opere, sia dal carattere universale di queste immagini: la pietà, il corpo di Cristo, sono per me icone della sofferenza umana, che vanno ben oltre il semplice contesto religioso. Fin dai primi anni ho utilizzato queste immagini, come il corpo sospeso del Cristo crocifisso, trasferendole in un contesto più universale. Per esempio, nella prima mostra che ho fatto qui a Zurigo, l’opera “Jelle Luipaard, 2004” era sospeso a una trave di ferro attaccata al muro.

 

Un leopardo giallo?

“Jelle Luipaard” era il titolo della scultura e il nome della modella. Ho sempre fatto così, chiamando le mie opere con il nome della modella. Le loro caratteristiche e la loro personalità venivano in qualche modo incorporati nell’opera. Chiunque guardava quelle figure pensava a Cristo in croce, ma si evocavano anche delle immagini più attuali, come scene della guerra in Afghanistan, dove i corpi nudi e senza vita dei soldati venivano appesi sotto i ponti. Atrocità ancora compiute dall’uomo, 2000 anni dopo la crocifissione. Questo era ciò che volevo affrontare nell’opera.

Poi, nel 2017, sono rimasta folgorata dalla scoperta degli “Enclosed Gardens.” Si tratta di piccoli armadi per la preghiera privata, allestiti nelle stanze delle monache e riempiti con un’eccessiva quantità di fiori di seta, reliquie e sculture policrome di santi. Continuavo a pensare: cosa potevo “rubare” da quell’oggetto e trasferirlo nel mio lavoro e tradurlo nel mio lessico. Che cosa rendeva quell'”hortus conclusus” così prezioso, così intrigante per me?

 

Mi interessa molto il modo in cui il concetto di giardino, in senso lato, si collega alla nozione di cura. Che aspetto hanno questi armadi?

Sono molto intimi: sobri all’esterno, con porte che venivano aperte solo quando si voleva pregare, e incredibilmente decorati all’interno. Questo mondo nascosto di lussuriosa esuberanza mi ha molto intrigato. Poi, naturalmente, c’è tutta la narrazione che circonda l’immaginario sacro, ma quello che mi ha colpito particolarmente sono stati i motivi floreali. A proposito di accuratezza, questi fiori in miniatura vengono realizzati in modo meticoloso. Il giardino dell’Eden è un tema importante per le suore che vivevano “imprigionate” nei monasteri. Quando entravano in convento, come spose di Cristo, vi rimanevano per tutta la vita. Essendo infermiere, si relazionavano con la vita all’esterno, solo attraverso i loro pazienti. Il giardino dell’Eden era quindi la loro forma di libertà assoluta. Una finestra sul mondo, ma anche una sublimazione della loro realtà sessuale, sempre collegata al corpo di Cristo, il loro marito. È stato esaltante tradurre tutte questi concetti nel mio lavoro.

La figura dell’angelo come protettore, salvatore o guaritore è un aspetto centrale in questa mostra, anche come omaggio agli operatori sanitari e agli infermieri. Pensa che si possano mettere in connessione anche la figura dell’angelo con quella dell’artista, nel senso che anche quest’ultimo può confortare chi ha bisogno o offrire una porta verso un futuro migliore?

Sì, credo che questa sia la prospettiva, quella speranza che tutti noi cerchiamo. Questa similitudine la ritrovo soprattutto quando sono circondata da film e libri. Trovo conforto in quello che altre persone, che condividono la mia stessa realtà, hanno recepito, metabolizzato e restituito al mondo, traducendolo nel proprio linguaggio. Credo che questo sia il ruolo dell’artista. Hai proprio ragione Nicolas, in effetti, è una bella metafora pensare all’artista come a un angelo.

 

Sono pienamente convinto che tu sia un angelo!

Non esageriamo. In ogni caso, è un aspetto molto importante quando le persone mi vedono connessa all’opera, non solo come artefice di queste sculture, ma anche per quello che le opere hanno da offrire.

 

Poco fa hai parlato di “libri” e ammetto la mia ossessione per il romanziere J. M. Coetzee, che anche tu ammiri molto. Se non ricordo male, hai curato la sua mostra per il padiglione belga alla Biennale di Venezia. Sono curioso di sapere cos’altro c’è nel tua libreria in questo momento. 

Sto leggendo alcuni vecchi libri dell’autrice olandese Connie Palmen. Fin da piccola voleva diventare una scrittrice e questo impegno incessante è riscontrabile anche nelle sue opere letterarie. So per esperienza quanto possa essere dura questa tipologia di sfida: ricordo che chiesi con grande convinzione ai miei genitori se potevo frequentare la scuola d’arte. All’epoca non era una scelta ovvia, ma quello è stato anche il mio inizio. È qualcosa che abbiamo in comune. Per me, il lavoro di Palmen può essere collegato a quello di J. M. Coetzee nel senso che l’attenzione è sempre rivolta alla condizione umana: la sofferenza, la bellezza e ciò che impariamo o non impariamo dalla vita. La Palmen ha perso due mariti; nel suo lavoro si percepisce la forza di andare avanti e la speranza di trovare nuove opportunità. Questo mi ha aperto gli occhi. Leggere i suoi libri può essere davvero terapeutico.

Tra gli altri filosofi e pensatori, mi interessa anche Philipp Blom, che fa riferimento al passato per discutere del futuro. In “The Vertigo Years”, parla del periodo che precede la Prima Guerra Mondiale, quando vi era la sensazione diffusa che tutto stesse andando a rotoli – molto simile a quello che stiamo vivendo ora, no? Entrambi esprimiamo un dramma inevitabile nel nostro lavoro, condividendo ansie e paure comuni…

 

…e questo è il vero potere della letteratura. Mi chiedo che cos’altro influenzi la tua ricerca? Immagino che viaggi molto. Quali sono le tue destinazioni preferite?

Mio marito ed io siamo innamorati dell’India, ma negli ultimi anni viaggiare è stato problematico a causa delle restrizioni. Anche il nostro viaggio in Iran nel 1996 è stato estremamente stimolante: è un luogo così straordinario e ricco di cultura. All’epoca era ancora molto facile viaggiare. Siamo rimasti affascinati da questo Paese, un luogo ricco di tradizioni e costumi tramandati di generazione in generazione. È incredibile come la gente del posto avesse una conoscenza così profonda della storia. Mi ha colpito il fatto che imparassero a memoria intere poesie e sono davvero grata di aver fatto questa esperienza prima che le cose si mettessero male. È straziante vedere come una cultura così delicata possa essere brutalmente violata.

Viaggio molto anche per lavoro e attualmente sto preparando una mostra a Roma. Sono andata prima di Natale per vedere lo spazio ed esplorare la città. Non è stato un soggiorno lungo, tuttavia mi è bastato per comprendere quali opere dovessi presentare. Non si tratta solo di portare a Roma i lavori che ho nel mio studio, ma di creare una connessione con il luogo, la sua situazione attuale e la sua storia.

 

Mi piace molto che la nostra conversazione si stia concludendo nella Città Eterna. Ogni volta che visito Roma, ho come rituale personale di andare direttamente alla Galleria Nazionale per vedere le tue sculture dei cavalli (“We are all Flesh”). Trovo molto interessante che tu abbia lavorato con pelli di animali per la maggior parte della sua carriera. Ultima domanda: hai un animale domestico?

Sì, abbiamo un cane. Si chiama Rena, che unisce i nomi dei miei due figli, René e Andreas. È un pastore malinois ed è il terzo che abbiamo avuto in oltre trent’anni. È sempre con noi in studio.

BIOGRAFIA

Nata a Gand nel 1964, dove vive e lavora, Berlinde De Bruyckere si ispira alla tradizione del Rinascimento fiammingo. Attingendo dall'eredità degli antichi maestri europei, dall'iconografia religiosa, dalla mitologia e dalle tradizioni culturali, l'artista mescola le storie dell’attualità con nuove narrazioni per creare percorsi psicologici ricchi di pathos, compassione e inquietudine. La vulnerabilità e la fragilità dell'uomo, il corpo sofferente - sia umano che animale - e la potenza della natura sono alcuni dei suoi temi principali. Dalla sua prima esposizione a metà degli anni Ottanta, le opere di De Bruyckere sono state oggetto di numerose mostre in importanti istituzioni di tutto il mondo. Nel 2013 ha rappresentato il Belgio alla 55a Biennale di Venezia.

PHOTO CREDIT

Installation view: Berlinde De Bruyckere. A simple prophecy
Hauser & Wirth Zurich, Limmatstrasse, 2023
© Berlinde De Bruyckere
Courtesy of the artist and Hauser & Wirth
Photo: Stefan Altenburger Photography Zürich

Berlinde De Bruyckere
© Berlinde De Bruyckere
Courtesy of the artist and Hauser & Wirth
Photo: Thomas Dashuber / Diözesanmuseum Freising

Installation view: Berlinde De Bruyckere. A simple prophecy
Hauser & Wirth Zurich, Limmatstrasse, 2023
© Berlinde De Bruyckere
Courtesy of the artist and Hauser & Wirth
Photo: Stefan Altenburger Photography Zürich

Installation view: Berlinde De Bruyckere. A simple prophecy
Hauser & Wirth Zurich, Limmatstrasse, 2023
© Berlinde De Bruyckere
Courtesy of the artist and Hauser & Wirth
Photo: Stefan Altenburger Photography Zürich

Installation view: Berlinde De Bruyckere. A simple prophecy
Hauser & Wirth Zurich, Limmatstrasse, 2023
© Berlinde De Bruyckere
Courtesy of the artist and Hauser & Wirth
Photo: Stefan Altenburger Photography Zürich

Berlinde De Bruyckere
It almost seemed a lily V, 2018 (detail)
2018
Wood, paper, textile, epoxy, iron, polyurethane, rope
212 x 148 x 40 cm
© Berlinde De Bruyckere
Courtesy of the artist and Hauser & Wirth
Photo: Mirjam Devriendt

Berlinde De Bruyckere
Arcangelo (Freising), 2021 – 2022 (detail)
2022
Bronze, lead patina, Belgian limestone, steel
Height: 500 cm
Installation view: Diözesan Museum, Freising
© Berlinde De Bruyckere
Courtesy of the artist and Hauser & Wirth
Photo: Thomas Dashuber / Diözesan Museum

Berlinde De Bruyckere
It almost seemed a lily, 2021-2023
2023
Wax, lead, wallpaper, textile, wood, rope
102 x 83 x 22 cm
© Berlinde De Bruyckere
Courtesy of the artist and Hauser & Wirth
Photo: Mirjam Devriendt

Berlinde De Bruyckere
It almost seemed a lily, 2019 – 2022
2022
Tracing paper and thread on paper
44,8 x 28 cm
© Berlinde De Bruyckere
Courtesy of the artist and Hauser & Wirth
Photo: Mirjam Devriendt

BIOGRAFIA

Nata a Gand nel 1964, dove vive e lavora, Berlinde De Bruyckere si ispira alla tradizione del Rinascimento fiammingo. Attingendo dall'eredità degli antichi maestri europei, dall'iconografia religiosa, dalla mitologia e dalle tradizioni culturali, l'artista mescola le storie dell’attualità con nuove narrazioni per creare percorsi psicologici ricchi di pathos, compassione e inquietudine. La vulnerabilità e la fragilità dell'uomo, il corpo sofferente - sia umano che animale - e la potenza della natura sono alcuni dei suoi temi principali. Dalla sua prima esposizione a metà degli anni Ottanta, le opere di De Bruyckere sono state oggetto di numerose mostre in importanti istituzioni di tutto il mondo. Nel 2013 ha rappresentato il Belgio alla 55a Biennale di Venezia.

Berlinde De Bruyckere

PHOTO CREDIT

Installation view: Berlinde De Bruyckere. A simple prophecy
Hauser & Wirth Zurich, Limmatstrasse, 2023
© Berlinde De Bruyckere
Courtesy of the artist and Hauser & Wirth
Photo: Stefan Altenburger Photography Zürich

Berlinde De Bruyckere
© Berlinde De Bruyckere
Courtesy of the artist and Hauser & Wirth
Photo: Thomas Dashuber / Diözesanmuseum Freising

Installation view: Berlinde De Bruyckere. A simple prophecy
Hauser & Wirth Zurich, Limmatstrasse, 2023
© Berlinde De Bruyckere
Courtesy of the artist and Hauser & Wirth
Photo: Stefan Altenburger Photography Zürich

Installation view: Berlinde De Bruyckere. A simple prophecy
Hauser & Wirth Zurich, Limmatstrasse, 2023
© Berlinde De Bruyckere
Courtesy of the artist and Hauser & Wirth
Photo: Stefan Altenburger Photography Zürich

Installation view: Berlinde De Bruyckere. A simple prophecy
Hauser & Wirth Zurich, Limmatstrasse, 2023
© Berlinde De Bruyckere
Courtesy of the artist and Hauser & Wirth
Photo: Stefan Altenburger Photography Zürich

Berlinde De Bruyckere
It almost seemed a lily V, 2018 (detail)
2018
Wood, paper, textile, epoxy, iron, polyurethane, rope
212 x 148 x 40 cm
© Berlinde De Bruyckere
Courtesy of the artist and Hauser & Wirth
Photo: Mirjam Devriendt

Berlinde De Bruyckere
Arcangelo (Freising), 2021 – 2022 (detail)
2022
Bronze, lead patina, Belgian limestone, steel
Height: 500 cm
Installation view: Diözesan Museum, Freising
© Berlinde De Bruyckere
Courtesy of the artist and Hauser & Wirth
Photo: Thomas Dashuber / Diözesan Museum

Berlinde De Bruyckere
It almost seemed a lily, 2021-2023
2023
Wax, lead, wallpaper, textile, wood, rope
102 x 83 x 22 cm
© Berlinde De Bruyckere
Courtesy of the artist and Hauser & Wirth
Photo: Mirjam Devriendt

Berlinde De Bruyckere
It almost seemed a lily, 2019 – 2022
2022
Tracing paper and thread on paper
44,8 x 28 cm
© Berlinde De Bruyckere
Courtesy of the artist and Hauser & Wirth
Photo: Mirjam Devriendt

Condividi