Dopo aver frequentato l’ICP, sei stata in Yemen per molti anni. Ci puoi raccontare cosa ti ha portato in quella realtà? Tu, di origine franco-spagnola, che hai studiato a New York, cosa ti ha spinto a trasferirti in un paese di cultura islamica come lo Yemen? È stata una scelta molto interessante, che sicuramente ti ha premiato.
Ho vissuto in Yemen per molto tempo, passandoci da 1 a 3 mesi ogni anno.
Mi attraeva il fatto che da quel Paese non uscisse nulla: né immagini, né storie. Nessuno lo documentava e io non ne sapevo nulla, quindi ero molto incuriosita e affascinata da quel luogo. A parte la Regina di Saba, cosa sapevamo dello Yemen? Avevo un paio di amici che si erano trasferiti lì nello stesso periodo, quindi avevo un posto dove stare quando lo visitavo. Poi ho iniziato a lavorare insieme a un mio amico: lui scriveva e io fotografavo. Le cose da raccontare erano tante perché tutto era così diverso, così nuovo, così estremo. Non riuscivo a smettere di raccogliere quelle storie: più visitavo il Paese, più lo conoscevo, più riuscivo ad accedere alla sua cultura, più amavo lo amavo, così come la sua gente. Poi la guerra e l’impossibilità di entrare nel Paese mi hanno fermato.
Cosa ti ha attratto del mondo islamico tanto da spingerti a continuare questo viaggio in Marocco, Iran e poi Egitto? E, soprattutto, ci puoi raccontare la tua esperienza come donna nei paesi musulmani?
Quando ho iniziato a lavorare in Yemen, mi sono sentita “a casa” nel mondo musulmano. Ho imparato i codici e ho amato le persone, quindi per me è stato naturale visitare gli altri paesi. Quando è iniziata la Primavera Araba nel 2011, in qualche modo ho seguito la catena delle rivoluzioni.
Inoltre, per quanto riguarda gli incarichi, i direttori sapevano che ero abituata al mondo arabo, quindi mi chiamavano per raccontare storie, soprattutto storie di donne in quei paesi. Conoscere un Paese, una lingua o i loro codici è un vantaggio quando si hanno pochi giorni per descrivere una realtà.
Poi il tuo sguardo si è rivolto ai paesi dell’America Latina. Vorremmo capire cosa ti ha spinto a fare questa scelta, passando da due realtà così distanti tra loro.
La guerra in Yemen è iniziata nel 2015; sono potuta entrare ancora nel 2017, ma poi ho capito che per il prossimo viaggio lì, avrei dovuto aspettare molto tempo, poiché il Paese aveva chiuso le porte ai giornalisti.
Ho seguito alcuni brevi studi sulle rivoluzioni contadine sudamericane al college. È sempre stato un tema che mi ha interessato molto. Nello stesso periodo in cui lo Yemen chiudeva le porte, la Colombia firmava l’accordo di pace con la più lunga e recente guerriglia del Sud America, quella delle FARC. Quindi sono stata attratta dall’idea di raccontare una storia su questo post-conflitto.
Sono spagnola e, dopo un decennio passato in Paesi dove la lingua poteva essere un ostacolo, una barriera, ho pensato che essere madrelingua spagnola fosse un vantaggio incredibile per avvicinarmi alle persone e guadagnare fiducia. Così ho iniziato questo progetto e ho proseguito nei Paesi intorno alla Colombia.
Tra i tuoi progetti, uno che ci ha colpito molto è “The Last & Lost Nomads of Iran”, che si concentra sui nomadi dell’Iran. Come sei riuscita a entrare in contatto con questa comunità e quanto è importante, oggi, parlare di questo stile di vita così diverso dalla nostra quotidianità?
È stata una lunga avventura. Non avevo nessun “fixer” che mi aiutasse a entrare in contatto con i nomadi. Non sapevo nemmeno se ci fossero ancora in quella zona. Si trovavano pochissime informazioni su di loro, almeno nelle lingue delle mie ricerche online! Quindi trovarli è stato affascinante quanto documentarli. Amo la “ricerca” perché ti dà il tempo di capire il Paese, di fare contatti e di avere un approccio lento ma sicuro.
Documentare una comunità che potrebbe non esistere più domani mi sembrava una necessità anche come fotografa. Mi piace raccontare le storie che non sono conosciute o viste. Ma anche documentare gli ultimi decenni di alcune tradizioni è così necessario proprio per lasciare una traccia nel mondo.
Durante il tuo percorso e i tuoi progetti, sei entrata in contatto con comunità molto diverse tra loro, da paesi di cultura musulmana a quelli dell’America Latina. Oltre alle differenze, hai notato somiglianze o vicinanze? Cosa ti resta di una e dell’altra esperienza?
Sì, sono stata fortunata a poter entrare in mondi molto diversi tra loro, ma che mi hanno insegnato molto, soprattutto la tolleranza e l’amore per la diversità, a non giudicare e a rendermi conto che in questo mondo esistono diverse realtà e verità.
Ovviamente, al di là della religione, della cultura, della lingua, del cibo, delle tradizioni, il cuore è lo stesso: l’umanità dentro ciascuno di noi. La sofferenza, le emozioni, la condivisione, la gioia, la forza della resilienza sono le stesse.