Questo mese cambiamo città per i nostri reportage degli studio visit: arriviamo a Chicago, un altro polo vibrante e in crescita per l’arte contemporanea, come ha dimostrato la settimana dell’arte di aprile. Con una forte presenza di istituzioni e scuole d’arte locali, un numero crescente di nuove gallerie contemporanee che aprono nella città del vento aggiungendosi ad altre affermate già presenti, e un pubblico d’arte impegnato del Midwest, Chicago si presenta oggi come un territorio fertile per una comunità di artisti che vogliono evitare la pressione economica e concorrenziale di città come New York e Los Angeles.
Qui abbiamo incontrato Chris Bradley, un artista incredibilmente intraprendente la cui pratica combina brillantemente giocosità e artigianalità, nel portare avanti una critica irriverente delle abitudini di consumo di prodotti ed esperienze nella società contemporanea.
Con un approccio iperrealistico alla scultura, Bradley lavora sulle presenze materiali ordinarie e banali che circondano la nostra esperienza di vita quotidiana – tutto ciò che il più delle volte diventa un luogo comune tale da impedirci di notarne le proprietà estetiche, fisiologiche e narrative.
Nell’ entrare nel suo studio, è impossibile non rimanere stupiti dal numero di strumenti e macchine che dimostrano come l’artista sia in grado di passare agilmente da un mezzo all’altro e da una tecnica all’altra, dal bronzo al legno, con questa estrema padronanza e consapevolezza dei materiali.
Lo studio di Bradley si trova in un magazzino nella zona ovest di Chicago.
Quando entriamo – oltre al suo adorabile cane e ad alcuni spuntini per la colazione gentilmente preparati – siamo accolti da una torre fatta di bastoncini di pretzel, attaccati insieme con una gomma da masticare. O meglio, una sua perfetta imitazione.
Questa versione della scultura è piuttosto alta e richiama in qualche modo alla memoria il Monumento alla Terza Internazionale di Tatlin, una struttura utopica che punta al cielo, precaria e audace nella sua ingegneria ma che esalta in questo modo l’inventiva avanzata della società che l’ha prodotta.
Nel riflettere su questo riferimento, inizio a comprendere il tipo di ironia che anima tutta la pratica di Bradley, che gioca con alcuni dei prodotti e dei simboli più amati della cultura consumistica americana.
Intorno, possiamo vedere anche alcune scatole vuote di pizza, anch’esse realizzate in bronzo. Alcune di queste opere sono destinate ad essere appese al muro, altre imitano persino lo sporco dell’olio, trasformando la scatola in una superficie per inaspettati ritratti unti.
Appesi a un’altra parete, alcuni soppalchi di pane realizzati in materiale morbido.
Le sculture di Bradley sono una sorta di trompe l’oeil, o inganno per gli occhi: la loro meticolosa lavorazione artigianale permette al bronzo di assumere la qualità più morbida e invitante del cibo, mentre il legno assume in modo convincente le qualità del metallo o della plastica. La sua arte è uno specchio della realtà, a cui si aggiunge un impulso deliziosamente artigianale.
La diversa gamma di opere che emulano gli oggetti presenti nel suo studio prova come Chris Bradley ha un’inventiva infinita, sempre accompagnata dall’umorismo.
Anche il suo sorriso gioviale sembra una caratteristica ricorrente per lui, che si avvicina chiaramente alla realtà circostante con un livello di accettazione, indagine critica e sarcasmo simile a quello che suggerisce il suo lavoro.
Più si osserva le sue opere e si ascoltano le sue spiegazioni, diventa chiaro come l’arte di Bradley sia informata dalla stessa nozione di ironeia descritta da Socrate, Platone e Aristotele: traendo spunto dal verbo greco εἴρων che significa “interrogare”, l’ironia indica una simulazione volontaria che alla fine permette una speculazione critica, un dubbio metodico o una sospensione dell’incredulità che, nell’ammettere di non sapere, permettono di accedere a un’altra conoscenza e consapevolezza della realtà.
Tuttavia, dietro la colorata giocosità,
Una volta entrati in questo territorio filosofico ed estetico, possiamo anche articolare meglio la relazione tra la pratica di Bradley e la pop art, e con Warhol in particolare.
Come Warhol, Bradley accoglie la nozione di arte accessibile che trae le sue modalità direttamente dalla produzione/distribuzione di massa, ma applica anche la strategia duchampiana del ready made per lavorare su copie/alter ego della “cosa reale”.
Tuttavia, così facendo, Bradley reinventa il ready-made e l’appropriazione avvicinandosi più all’operazione di Oldenbourg, nel mantenere l’arte e l’eccellenza nel fare una replica esatta, un’imitazione della realtà – come insegna anche la nozione più tradizionale di arte, da Platone al Rinascimento.
Con Warhol Bradley sembra comunque condividere questa acuta presa in giro del gusto comune della classe media fabbricato dai media, con la loro perversa fascinazione voyeuristica per il dolore altrui come intrattenimento, e con l’effimerità dei suoi idoli e dei suoi valori, il più delle volte ridotti in immagini superficiali da consumare facilmente e che cadono rapidamente nell’obsolescenza.
Oltre a questi riferimenti, c’è qualcosa di più scivoloso, e non così diretto da spiegare, nella pratica di Bradley, soprattutto quando le opere si trasformano in cinetiche: il movimento apparentemente senza scopo di una patata sul muro o il no sense di un pallone da basket con la cannella che si posa a terra, sono presenze paradossali e intrinsecamente “strane” nello spazio, più in linea con gli assemblaggi surrealisti: incontri casuali tra oggetti che li trasformano in personaggi inaspettati e inquietanti, mettendo in scena una situazione materiale che va contro ogni aspettativa linguistica culturale che avremmo per quegli specifici oggetti o prodotti, in quanto già trasportati dall’artista in un’altra dimensione di percezione.
Come osservato nel saggio che accompagna la sua recente mostra all’MCA di Chicago, le sculture di Bradley sono infatti cariche di quelle che il padre del surrealismo Andre Breton chiamerebbe “qualità associative e interpretative”, che passano inosservate finché non vengono attivate dal desiderio dello spettatore.
L’atteggiamento critico di Bradley risuona poi più con i “pessimisti pratici” che Nietzsche associava all'”ironia”, quella che permette di accettare il mondo materiale così com’è, con la consapevolezza dell’inesorabile obsolescenza e finitudine a cui tutto è sottoposto.
Il tentativo di Bradley di emulare la realtà mondana, gli oggetti e i prodotti che circondano la nostra vita quotidiana, può essere quindi interpretato come un tentativo di immolarli come presenze totemiche senza tempo, e allo stesso tempo momento mori della loro finitudine.
Alla fine, tutte queste opere non si discostano dalle vanitas dei vecchi maestri e dei dipinti fiamminghi in particolare, funzionando come promemoria dell’effimero e della caducità di ogni piacere materiale e terrestre.
Una volta entrati in questo territorio filosofico ed estetico, possiamo anche comprendere meglio la relazione tra la pratica di Bradley e la pop art, e con Warhol in particolare.
Come Warhol, Bradley accoglie la nozione di arte accessibile che trae le sue modalità direttamente dalla produzione/distribuzione di massa, ma applica anche la strategia duchampiana del ready made per lavorare su copie/alter ego della “cosa reale”.
Tuttavia, così facendo, Bradley reinventa il ready-made e l’appropriazione avvicinandosi più all’operazione di Oldenbourg, nel mantenere l’arte e l’eccellenza nel fare una replica esatta, un’imitazione della realtà – come insegna anche la nozione più tradizionale di arte, da Platone al Rinascimento.
Con Warhol Bradley sembra comunque condividere questa critica sarcastica del gusto comune della classe media fabbricato dai media, con la loro perversa fascinazione voyeuristica per il dolore altrui come intrattenimento, e con l’effimerità dei suoi idoli e dei suoi valori, il più delle volte ridotti in immagini superficiali da consumare facilmente e che cadono rapidamente nell’obsolescenza.
Oltre a questi riferimenti, c’è però anche qualcosa di più scivoloso, e non così facile da spiegare, nella pratica di Bradley, soprattutto quando le opere si trasformano in cinetiche: il movimento apparentemente senza scopo di una patata sul muro o il no sense di un pallone da basket con la cannella che si posa a terra, sono presenze paradossali e intrinsecamente “strane” nello spazio, più in linea con gli assemblaggi surrealisti: incontri casuali tra oggetti che li trasformano in personaggi inaspettati e inquietanti, mettendo in scena una situazione materiale che va contro ogni aspettativa linguistica culturale che avremmo per quegli specifici oggetti o prodotti, in quanto già trasportati dall’artista in un’altra dimensione di percezione.
Come osservato nel saggio che accompagna la sua recente mostra all’MCA di Chicago, le sculture di Bradley sono infatti cariche di quelle che il padre del surrealismo Andre Breton chiamerebbe “qualità associative e interpretative”, che passano inosservate finché non vengono attivate dal desiderio dello spettatore.
Deve essere anche per questo che alcuni dei suoi lavori, sia completati che in corso, danno l’idea di strumenti per esperimenti e dimostrazioni di fisica.
Appropriandosi e rispecchiando il banale ma iniettandovi una certa stranezza surreale, alla fine Chris Bradley incoraggia quindi anche ad un atto di fede e di incredulità nei confronti di tutte le presenze e i fenomeni materiali che ci circondano, e dei codici e delle regole che usiamo per interpretarli.
Questo può essere visto anche in qualche modo simile a quanto fatto da Joseph Konsuth con le sue One and Three Chairs: un’operazione di meta-rappresentazione ci costringe a guardare più da vicino questo sistema di oggetti e di linguaggio, e ad accettare la relatività intrinseca al suo interno.
Come ha formulato Platone: c’è l’idea, l’archetipo, poi l’oggetto, quindi una parola o un concetto comunemente accettato che lo codifica, in questo preciso ordine della realtà in cui viviamo.
Tuttavia, spesso dimentichiamo che questa è solo una possibile prospettiva, una possibile formulazione e traduzione basata sulle nostre capacità linguistiche e sensoriali, che potrebbero essere diverse per altre entità.
L’opera di Bradley può dunque essere letta anche come arte concettuale, in termini descritti da Joseph Kosuth, come “basata su un’indagine sulla natura dell’arte“; “Fondamentale per questa idea di arte è la comprensione della natura linguistica di tutte le proposizioni artistiche, siano esse passate o presenti, e indipendentemente dagli elementi utilizzati nella loro costruzione“.
In questo imitare, riformulare e mutare di forme materiali e linguistiche, Bradley intraprende così un’instancabile contestazione dei confini stabiliti tra creazione di oggetti e creazione di arte, tra funzionale e creativo, tra finzione e realtà, per dimostrare la natura intrinsecamente relativa di queste categorizzazioni.
Alla fine, attraverso la sua raffinata abilità artigianale e l’estrema conoscenza dei materiali, Bradley è riuscito in qualche modo a creare un proprio sistema epistemologico e ontologico per mettere alla prova la realtà quotidiana e rivelare il cattivo sogno che si cela dietro i meccanismi di un circolo infinito di consumo e disgregazione capitalista.
In questo senso Chris Bradley abbraccia e crea con il suo lavoro ciò che il filosofo Michel Foucault chiamerebbe eterotopie: mondi all’interno di mondi, che rispecchiano e sconvolgono ciò che è fuori.
Perturbanti, inquietanti, paradossali, contraddittorie o che trasformano il quotidiano, le sculture di Bradley spingono lo spettatore a un’analoga operazione di interrogazione e sfiducia che finisce per rivelare il potenziale critico della non ordinarietà che si cela sotto ciò che descriviamo come realtà.
In questo modo, l’opera di Bradley incoraggia ad abbracciare semplicemente l’unica prospettiva possibile, quella dell'”emplacement”, ossia la comprensione del mondo materiale come “sito” prodotto solo attraverso il sense-making umano.