C’è qualcosa di misterioso nel lavoro di Christine Rebhuhn.
I suoi austeri assemblaggi scultorei monocromatici ma estremamente raffinati vivono in questo limbo tra la loro presenza fisica e il loro potere simbolico, la loro materialità e l’inconscio delle immagini che mettono in scena nello spazio.
L’arte di Christine Rebhuhn esplora le verità più intime che si nascondono nel profondo del nostro subconscio: la verità dei nostri sentimenti e delle nostre emozioni che vorremmo non affrontare mai, ma che inevitabilmente emergono in termini simbolici durante gli stati alterati di coscienza, svincolati dal controllo e dalla narrazione razionale.
Con i suoi assemblaggi scultorei di oggetti trovati e le composizioni magistralmente intagliate a mano, Rebhuhn crea potenti metafore universali della condizione esistenziale, mettendo in scena un insieme di dinamiche umane di cui ha fatto esperienza o di cui è stata testimone.
Come lei stessa ammette, la sua pratica artistica è diventata un modo per elaborarle, lentamente.
La speranza dell’artista è che l’esternare queste dinamiche in forme fisiche possa trasformarsi in un esercizio per esserne un po’ più consapevoli e sensibilizzare altre persone.
In questo senso, le sue opere funzionano anche come simulacri e presagi, che mettono in guardia su qualcosa di pericoloso che sta per accadere, o che è già accaduto ma non deve ripetersi.
Adottando meccanismi simili a quelli del Teatro dell’Assurdo, il mondo che Rebhuhn presenta può sembrare incoerente, spaventoso e strano, ma allo stesso tempo è ossessivo e rivelatore, nella sua stranezza e nella sua familiarità.
La metodologia e l’approccio visivo utilizzati da Rebhuhn rivelano improvvisamente come gli strumenti linguistici e narrativi convenzionali possano il più delle volte trasformarsi in una barriera, piuttosto che in un mezzo di comunicazione, e come il linguaggio sia spesso un costrutto che fallisce nello spiegare e regolare l’interazione e gli scambi umani.
Le sue composizioni materiche e i suoi “disallineamenti” poetici sembrano già esplorare, piuttosto, un sistema semiotico alternativo che abbraccia un simbolismo criptico e dissonante: svincolati dal loro significato e uso convenzionale, gli oggetti si trasformano in caratteri di un linguaggio segreto grazie alle molteplici associazioni che possono attivare intuitivamente durante un processo di decodificazione e risignificazione operato dall’artista, così come successivamente dallo spettatore nell’accostarsi ad essi con il carico delle proprie esperienze.
In questo senso, le composizioni materiche di Rebhuhn funzionano più come le strutture simboliche ed estetiche adottate fin dagli albori della civiltà con miti e favole.
Più precisamente, riecheggiando la teoria strutturalista di Lévi-Strauss sulla mitologia, l’arte di Rebhuhn si trasforma analogamente in “linguaggio, funzionante a un livello particolarmente elevato in cui il significato riesce praticamente a ‘decollare’ dal terreno linguistico su cui continua a rotolare”.
Nel fare riferimento alla teoria di Lévi-Strauss sui miti, non si può non osservare come anche le opere di Rebhuhn rispecchino perfettamente questa perdita da lui discussa come origine di quelle narrazioni, ovvero quando gli uomini hanno smesso di parlare con gli animali: gli animali nelle narrazioni mitologiche si trasformano quindi in potenti personificazioni dei comportamenti umani, usati come strumenti linguistici per alludere simbolicamente a risposte e atteggiamenti più istintivi che dipendono direttamente dalle strategie di sopravvivenza, e che spesso sfuggono al controllo di qualsiasi codice morale ed etico civilizzato. In queste risposte naturali, però, risiede una natura primordiale del sé, privata già di tutti i veli della sublimazione o del controllo.
Allo stesso modo, Rebhuhn sembra scegliere nelle sue opere uccelli e animali molto specifici, che riflettono comportamenti e risposte più istintive spesso represse nelle azioni civilizzate dell’uomo, ma che potrebbero emergere in situazioni di pericolo e di attacco, rendendo più chiaro come queste dinamiche esistano anche nelle relazioni umane, come in natura.
Rebhuhn, tuttavia, è consapevole di non volere sovraesporre le sue opere con troppe storie o spiegazioni che le accompagnano, comprendendo l’importanza di una “ragionevole quantità di mistero” che esse devono mantenere, per essere metafore potenti.
In questo processo anche il nero è un elemento chiave, che permette all’artista di ottenere questo mutamento di forme: in tutti gli oggetti che utilizza ci sono tante connotazioni, come dimostra il loro percorso di vita.
Una forma può essere tante cose, ma l’oscurità aggiunge anche un altro strato, estraendoli completamente dalla loro essenza banale, completata dall’accoppiamento apparentemente senza senso di elementi che alla fine trovano sempre un ordine formale molto preciso.
In questo modo, il processo di Rebhuhn sembra riecheggiare ancora una volta Lévi-Strauss quando il filosofo spiega come nella struttura dei miti “il significato non è isolato all’interno delle specifiche parti fondamentali del mito, ma piuttosto all’interno della composizione di queste parti. Sebbene il mito e il linguaggio siano categorie simili, nel mito il linguaggio funziona in modo diverso. Il fondamento dello strutturalismo si basa su un’innata comprensione del processo scientifico, che cerca di scomporre i fenomeni complessi nelle parti che li compongono per poi analizzare le relazioni”.
Seguendo un approccio simile di appropriazione di simboli materiali per poi assemblarli e ricomporli in un nuovo codice, Rebhuhn si imbarca il più delle volte anche in un’ostinata operazione di addomesticamento quasi ossessivo degli oggetti e dei materiali che usa, in una elaborazione estremamente laboriosa che decide di operare, come l’intaglio a mano del legno.
Questo appare quasi un processo masochista di controllo e disciplina autoimposta, che diventa strumento di guarigione e di esercizio di qualcosa di radicato nella psiche, che emerge in queste opere.
Tuttavia, i suoi lavori non sono mai completamente distaccati dalla realtà: come spiega l’artista, spesso sono gli oggetti a venire da lei, come idee per le sue opere, portando con sé tutta una serie di storie e significati che hanno accumulato e che possono attivare un nuovo circolo di utilizzo e di possesso.
In questo senso, il processo di ideazione e assemblaggio di queste sculture diventa anche uno strumento per l’artista per testare un sistema di interdipendenza tra le persone e come queste relazioni siano dirette e guidate da un sistema di scambio di merci.
Le sue sculture sono il più delle volte il risultato di un percorso umano che la porta a selezionare con cura gli oggetti, ad acquistarli da persone spesso sconosciute tramite annunci, e poi a modificarle con la collaborazione di artigiani.
Tuttavia, l’artista sceglie di preservare la segretezza di queste storie di fondo, negando qualsiasi associazione con una narrazione o una storia esplicita: sono piuttosto presentate come simboli nello spazio, metafore aperte a risuonare con le diverse associazioni subconscie che gli spettatori che le incontreranno tengono già nel loro sguardo come una serie di ricordi individuali e collettivi che influenzeranno il significato finale.
In questo modo il lavoro di Rebhuhn affronta direttamente ciò che regola le relazioni tra linguaggio, cultura ed esperienza, in quanto tutti incorporati in strutture convenzionali più ampie.
Tuttavia, nel suo astrarre quegli oggetti dal loro ordine materiale e simbolico convenzionale e ponendoli in una sottile retorica di incontri casuali e tensioni tra opposti, Rebhuhn sembra anche seguire una sorta di “Savaged Mind“, ovvero un “pensiero umano ‘indomito’ e distinto dalla mente coltivata” che le permette di sfuggire a qualsiasi livello convenzionale e razionale della realtà.
Altre volte, però, Rebhuhn ammette di aver deciso di giocare a rendere queste metafore così chiare e dirette, da apparire quasi scialbe: animali e oggetti sono abilmente combinati nella loro posizione fisica, simbolica e linguistica, per diventare testimoni di un dramma umano in corso, segni evidenti di un trauma condiviso esternato.
Per esempio, l’artista ha usato molte volte i canarini e ammette di sentire che c’è qualcosa in quell’uccello così carico di metafore da sembrare quasi off limits: troppo diretto, per quanto riguarda il suo significato, sia nel suo aspetto fisico che nelle associazioni linguistiche al suo nome inglese.
Anche Rebhuhn ha giocato molto con questi abbinamenti visivi e simbolici, ma, come lei stessa confessa, a volte ha scelto un titolo troppo diretto, correndo il rischio di cadere in un cliché.
Tuttavia, i suoi arguti assemblaggi contemplano già una più complessa combinazione simultanea di significati e associazioni linguistiche, “disallineamenti” di materiali e attivatori psicologici, con i quali riesce a creare coinvolgenti loop tra diversi sensi e livelli della realtà.
Spesso elegiache nel tono, severe nelle scelte cromatiche e nella presenza, le opere di Rebhuhn potrebbero essere viste come reliquie di una civiltà in cui persone e oggetti hanno già perso il loro scopo, o la correlazione di senso.
In esse, gli animali sostituiscono gli uomini come nelle favole, per trasformarsi in segni e sintomi universali del loro stato psicologico e delle loro qualità oggi troppo polarizzate.
Personaggi, ambientazione, eventi e morale sono incapsulati in austeri simulacri, che estendono la loro presenza ben oltre il loro aspetto esteriore, come concrete immagini sceniche dell’assurdità di un dramma profondamente umano dell’esistenza: un dramma che consiste in questa condizione di essere sempre sospesi in una complesso e spesso conflittuale limbo tra realtà fisica, relazioni simboliche di significati e interpretazioni di essa.
Per concludere, gli inventivi assemblaggi di opposti di Rebhuhn ci invitano ad abbracciare la complessità di un’ineludibile pluralità e pluralismo di visioni e valori che caratterizzano la nostra esperienza del mondo: la realtà delle menti umane e delle dinamiche relazionali è raramente divisa tra due opposti netti, tra un bianco e un nero, una vittima e un carnefice, ma è piuttosto costituita da una pluralità di esperienze e interpretazioni ed espressioni possibili.