Novembre 2023
David Lamelas è una figura cardine nella storia dell’arte concettuale e nella sperimentazione filmica. La sua pratica nomadica che include film, video, performance, fotografie, sculture, installazioni e disegni è tanto complessa quanto pioneristica, ed elude ogni categorizzazione. Il suo lavoro si concentra sulle percezioni dello spettatore e testa criticamente i meccanismi della produzione culturale. Lamelas crea interventi lavorando col tempo e lo spazio e la loro relazione con lo spettatore, sfidandone le percezioni e i preconcetti.
David Lamelas è in mostra con la personale “I have to think about it” presso Fondazione Antonio Dalle Nogare a Bolzano fino al 24 gennaio 2024.
Il mio primo incontro con il tuo lavoro è avvenuto all’università quando durante un corso una professoressa ci mostrò uno dei tuoi lavori più celebri, Untitled (Falling Wall), 1992, un’installazione dove una serie di assi di legno sorreggono una parete inclinata arrestandone l’apparente collasso nello spazio espositivo. L’opera è molto forte, ed è considerata come un esempio di Institutional Critique, corrente artistica che riflette sul potere esercitato dallo spazio espositivo, come ben descritto da Brian O’Doherty in vari saggi degli anni ‘70. Lo stesso può essere detto di un altro tuo lavoro di molto precedente, Corner Piece, 1965, presentato nella mostra di Bolzano. Questi interventi sono tentativi di analizzare come ci muoviamo nello spazio, come esso funziona e il potere che l’architettura esercita su di noi. Vorrei chiederti quali domande ti stavi ponendo quando hai concepito queste opere.
Queste opere hanno molto a che fare con le funzioni dello spazio, come lo usiamo e come ci stiamo dentro. Per fare un esempio, di solito non stiamo negli angoli, non ci sono opere appese lì; per qualche motivo quello spazio mi ha sempre interessato. Quando feci Corner Piece stavo lavorando con le linee di congiunzione dei muri, con gli angoli e con lo spazio tra i muri e il soffitto, il punto di congiunzione fra di loro, ma questo lavoro riguarda anche lo spazio vuoto che si viene a creare là; questo è il motivo per cui ero interessato a quello spazio. Poi, ovviamente, anche il potere che lo spazio esercita è un elemento molto importante. Un lavoro che riassume bene tutto quello che ho menzionato è Connection of Three Space, 1966, questo è un esempio perfetto di ciò di cui stiamo parlando.
Non sono invece troppo sicuro riguardo l’influenza di Brian O’Doherty sulla mia pratica, semplicemente perché quando ho iniziato io non esisteva il cosiddetto “white cube”, i muri erano colorati e molto spesso era come stare a casa di qualcuno. Il mio primo confronto con uno spazio espositivo convenzionale lo ebbi quando esposi a metà anni ‘60 all’Instituto Torcuato di Tella a Buenos Aires.
Il tuo lavoro è stato affiliato a molti diversi movimenti artistici lungo la tua carriera: dal Minimalismo al Concettuale, dall’Institutional Critique fino all’Estetica Relazionale come accade in questa mostra. Tuttavia il tuo lavoro può essere definito soprattutto come “situazionale”. Come vedi l’evoluzione della tua pratica artistica durante tutti questi decenni? C’è un filo che connette l’evoluzione dei media che hai usato nelle tue opere?
Se pensi al mio lavoro vedi che c’è sempre un elemento costante: il disegno. Ho iniziato a disegnare molto presto, e se mi guardo indietro dai primi tempi sino ad oggi, la cosa più importante è stato lo spazio sulla carta bianca, cosicché posso dire che ho sempre lavorato con lo spazio e ci disegno dentro. Lo spazio è sempre stato il collegamento, e questo si applica anche ai miei lavori filmici dove uso una narrativa temporale frammentata fra memoria e percezione; lì lo spazio sociale e l’aspetto del tempo diviene quasi come uno spazio astratto.
Quando hai rappresentato l’Argentina alla Biennale di Venezia nel 1968, è capitato in un momento molto particolare nella storia dell’arte e nella storia della manifestazione veneziana. Hai presentato Office for Information about the Vietnam War at Three Levels: The Visual Image, Text and Audio, un’agenzia di comunicazione in tempo reale sulla guerra in Vietnam costituita da una scrivania, un telex e una macchina da scrivere Olivetti, dove le notizie provenienti dall’ANSA venivano lette a intervalli regolari in tre lingue. In quell’occasione hai usato uno spazio dedicato all’arte come un centro per la comunicazione, slittando dalla presentazione di un’opera d’arte alla presentazione di una situazione. Office for Information è una riflessione su come le notizie vengono trasmesse e come raggiungono il pubblico, ma mi chiedo se questo fosse anche un modo di congiungere arte e vita quotidiana, e, da ultimo, di creare un’opera che non sia un’opera d’arte, come aveva affermato Duchamp già nel 1913.
Concordo completamente, non era considerato come un intervento artistico. Era inteso come un’affermazione sulla situazione.
Hai ripresentato questo lavoro leggermente modificato nella mostra di Bolzano, come a dire che non esiste una versione definitiva ed unica di questo lavoro, ma molte e molteplici.
La versione presentata a Bolzano è più semplice e differisce poiché le cose cambiano col tempo, ma dato che considero che l’essenza del lavoro è la sua idea, essa non è cambiata dalla prima presentazione. L’opera può cambiare in relazione al momento e alle condizioni di presentazione quindi ogni volta può essere un po’ diversa. Mi piace lavorare con le idee dei curatori, in questo caso è stato bello recuperare mobili e apparecchiature elettroniche d’epoca, è stato un bel modo per presentare la memoria di quel lavoro. Non sarei a priori contrario a presentarlo con un tavolo diverso ma in questo caso eravamo più interessati a ricostruire la memoria storica della presentazione originale.
Un altro lavoro esposto in mostra è Rock Star (Character Appropriation), 1974, serie di foto che ti ritraggono mentre posi come una rock star su un palcoscenico, dove giochi fra il desiderio di fare la rock star, la percezione che le foto creano in chi le vede e la realtà. Questo lavoro mi ha colpito in quanto anticipatore della logica che sottende oggi i social network con il loro incessante flusso di contenuti usati come strumento per la creazione di personalità, dove puoi presentare la versione idealizzata di te stesso, agendo come-se, e costruendo fittiziamente la propria personalità.
Assolutamente tutti lo fanno! Lo trovo così strano, io non uso Instagram, quindi non seguo molto quella logica ma mi capita magari di vedere persone posare anche mentre aspettano l’autobus. Siamo costantemente in posa, e questa mediatizzazione della vita la trasforma in una finzione. Quasi ogni aspetto della vita, e anche della politica, oggi segue quello che tira nei social media. Questo lavoro però presenta anche un aspetto della vita in Inghilterra negli anni ’70. A Londra tutti quelli della mia generazione volevano essere delle rockstar, lì io ho rappresentato un fenomeno sociale. Avevo molti amici che si vestivano come tali e vivevano, o fingevano, di vivere come tali. Il lavoro era una sorta di commento sociale sulla creazione delle celebrità, anche perché all’epoca non tutti avevano una macchina fotografica e in pochi potevano documentare quel tipo di cose.
Su cosa stai lavorando, o rielaborando, al momento?
Sto finendo un lungometraggio di circa 80 minuti sulla mia vita a Los Angeles, sto facendo l’edit finale e appena finito questo inizierò a lavorare su un altro video. Questi non sono film commerciali, da Netflix, lì mostrerò in circuiti artistici. Poi penso costantemente a nuovi lavori, terrò una grande mostra a New York nel 2025 dove presenterò molti pezzi sullo spazio, per questo sto lavorando all’espansione dell’idea di Corner Piece nel futuro.
Veduta installativa di Office of Information About the Vietnam War presso Fondazione Antonio Dalle Nogare; ph. Hannes Ochsenreiter, 2023
Veduta installativa di Corner Piece presso Fondazione Antonio Dalle Nogare; ph. Hannes Ochsenreiter, 2023
Veduta installativa di Rock Star (Character Appropriation), presso Fondazione Antonio Dalle Nogare; ph. Jürgen Eheim, 2023
David Lamelas, Rock Star (Character Appropriation), 1996, Courtesy di David Lamelas e Jan Mot, Brussels
Ritratto di David Lamelas; ph. di Luca Guadagnini, 2023