Eyasin è un bangladese di 20 anni, partito a 16 e arrivato da noi a 18. Voleva iscriversi a matematica a Dhaka, ma la famiglia lo ha spinto a partire: serviva investire su un membro che guadagnasse per tutti e fu scelto lui. Raccolsero 1.000 euro ed Eyasin partì.
All’inizio, un viaggio normale, Kuwait, Dubai, Egitto, in aereo. Ma in nord-Africa, Eyasin capisce che per entrare in Europa devi rivolgerti ai trafficanti che operano principalmente su un hub: la Libia.
“Sono entrato in Libia nel bagagliaio di un’auto dove c’erano armi. Lavoravo di notte, di giorno era troppo pericoloso, circolavano molti fucili. Un giorno la mafia ci ha portati in una specie di accampamento, volevano soldi per liberarci, ci davano un pezzo di pane e un bicchiere di acqua al giorno”.
E poi botte, bastonate, torture.
Tra i migranti si sparge il terrore, qualcuno arriva alla disperazione. “Un amico ha trovato una lametta e si è tagliato la gola. Nessuno poteva aiutarlo mentre per loro era uno di meno”, che aveva già pagato. Eyasin con sei suoi amici scappa. “Abbiamo scavato una buca nella sabbia. Ma vicino al mare la polizia ha iniziato a sparare”. Così Eyasin, che non sa nuotare, si butta in acqua, “sono rimasto dentro, ho lasciato fuori solo la bocca”. E si salva.
Ma servono altri soldi. “Chiamai mia madre, piangeva, aveva capito che ero finito all’inferno, ma era troppo tardi, doveva pensarci prima”.
E poi il barcone. Il rischio di morire in acqua. L’incertezza violenta. “Lavoro in un supermercato, aiuto la mia famiglia e l’università di mia sorella”, ma è ancora in attesa della commissione per l’asilo.