Il confine tra materiali diversi è un tema ricorrente nella tua ricerca. La tua è una visione dove oggetti e persone sono superfici di scambio sulle quali passano e vengono trasportati messaggi, ma che allo stesso tempo nascondono e celano la profondità delle cose. Se si osserva le tue opere sembra sempre che tu ricorra alla tecnologia per penetrare e tradurre queste “membrane”, ma come si legano le nuove tecnologie a questo tuo approccio, quasi antropologico, a tutto ciò che ti circonda?
Faccio ricorso al suono come una “nuova tecnologia” perché ritengo che, al pari delle arti visive, sia uno strumento antropologico profondo. Basti pensare alle sue applicazioni in etnomusicologia nel XIX secolo e alla successiva integrazione dello studio dei rumori all’interno della disciplina. Tuttavia, inizio a credere che parlare di “nuove tecnologie” sia ormai anacronistico e che questa espressione implichi una subordinazione mediale del suono sintetizzato. Penso invece che, al pari di un documento visivo, il documento sonoro sia in grado di far emergere livelli del sensibile altrimenti nascosti. Amplifica attraverso l’elettricità ulteriori forme di interazioni, scambi e cedimenti di sé. La tecnologia è un’esistenza al pari della nostra con la quale abbiamo nel corso del tempo instaurato uno scambio di segni; quindi perché non considerarla una superficie di scambio a sua volta? È uno dei sistemi nervosi della nostra vita oltre ad essere l’ultima energia alla quale affidiamo la forzata speranza di prolungare il momento di esistenza nelle nostre ultime ore.
Un esempio di come gli strumenti tecnologici possano costituire un’ulteriore superficie di scambio è l’installazione site-specific Tre canti, realizzata per spazio TORRSO, durante le iniziative tenute per Pesaro Capitale della Cultura 2024. L’opera è un suono generato attraverso la programmazione che indaga i limiti del linguaggio in rapporto a un secondo corpo. Proprio come il dialogo tra due oscillatori fissi ai poli opposti della stanza, ci poniamo in relazione con il sensibile e dialoghiamo con esso, consapevoli che, in quel momento di scambio, i nostri segni e il nostro linguaggio ci sfuggono, disperdendosi in uno spazio ermeticamente testimone, che è tutto ciò che ci resta. L’ascoltatore, chiamato ad accedere gradualmente all’installazione tramite un ascensore, si ritrova a vagare in questo spazio terzo di dialogo, saturo di suono. L’intento era quello di restituire la sensazione di stare dentro un forno a microonde, un ambiente in cui il corpo interagiva con il suono attraverso il proprio spostamento. La percezione delle sinusoidi variava in base alla posizione dell’ascoltatore nello spazio, rendendo l’esperienza ogni volta diversa.
Assieme agli strumenti tecnologici, nel tuo lavoro, è il suono ad assumere una centralità fondamentale. Campionature, distorsioni, ci racconti il tuo processo creativo e da dove nasce questa tua esigenza?
Ho sempre avuto un rapporto difficile con la musica: iniziavo a studiare uno strumento e, nonostante avessi riscontri positivi nell’apprendimento, finivo per abbandonarlo. Ricordo che da piccola suonavo la pianola che avevamo in casa e non ho mai dimenticato il sample predefinito di quel modello. Di recente l’ho riascoltata casualmente in un mix di Clairo su NTS e, commuovendomi, ho realizzato di non aver mai realmente interrotto il mio rapporto con il suono, anche quando smettevo di dedicarmi alla musica in senso accademico.
Per molto tempo ho pensato di non avere abbastanza esperienza in un campo specifico, quando in realtà avevo solo bisogno di non identificare ciò che facevo con un medium preciso. Ho iniziato a lavorare consapevolmente sul e con il suono quando mi sono resa conto che nella scultura non riuscivo a ottenere le sensazioni che cercavo nel rapporto con il materiale. Mi sono quindi chiesta come potessi percepire la materialità attraverso altri canali.
MUTE è stato uno dei miei primi lavori esclusivamente sonori: un LP prodotto dalla Galleria Alessio Moitre di Torino e commissionato dall’architetto Chiara Finizza. Si compone di cinque paesaggi sonori raccolti attraverso una deriva urbana a Venezia, poi smembrati e ricomposti. Questa ricerca mi ha permesso di comprendere il suono come un elemento capace di tagliare la realtà come una lama, di destrutturare la norma della toponomastica e di consentire all’ascolto di costruire nuovi percorsi, liberando il paesaggio dalla sua fruizione predeterminata.
Da quel momento ho approfondito sempre di più la possibilità di instaurare un legame con la realtà attraverso la performance, un linguaggio che mi ha permesso (e continua a permettermi) di dialogare attivamente con questa dimensione del suono. È come se potessi entrare direttamente nella feritoia della percezione e dei ricordi per generare e vivere nuovi frammenti, che emergono nel momento stesso in cui la pratica sonora si compie.
Il sintetizzatore semimodulare che utilizzo mi aiuta in questo processo: mi permette di costruire un nuovo sfondo per questi frammenti e di esplorare ulteriormente il potenziale percettivo del suono. Inoltre, questa materia mi ha aiutato a riallacciare un legame con le mie origini e con la tradizione calabrese, dopo aver preso le distanze a causa di un antimeridionalismo interiorizzato a seguito del mio trasferimento nel Nord Italia. È diventato uno strumento di analisi personale e politica, in cui l’ascolto assume un ruolo attivo sul piano sociale. Ho approfondito questo aspetto nel mio ultimo lavoro, fix it till you make it, esposto negli spazi di Palazzetto Tito, all’interno della Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia. L’installazione utilizza in modo provocatorio la finzione scientifica per portare alla luce quei tratti latenti e discriminatori che, attraverso una selezione aurale, escludono gli accenti meridionali dagli ambienti istituzionali, ponendo una riflessione ulteriore sulla dizione come forma di correzione forzata del corpo.
In opere come Le jour des saints innocents o Sento l’amaro pianto, combini elementi liturgici e tradizionali con suoni elettronici. Qual è il significato di questo dialogo tra sacro e contemporaneo nella tua pratica artistica?
Il sacro è strettamente legato alla ritualità, uno spazio che porta il soggetto che partecipa ad una festa, ad una messa, ad un evento collettivo alla perdita del sé individuale per fondersi nella comunità. Da sempre il suono e il ritmo sono stati centrali nella dimensione rituale della quotidianità, della mietitura del grano, della raccolta delle olive, della vendemmia, ritualità che fin da piccola ho condiviso anch’io. I riti collettivi hanno sempre avuto uno spazio importante nella mia crescita, così come la trasmissione degli stessi nel canto. Non faccio nient’altro che reiterare nuovamente tale trasmissione e tali riti attraverso quelli che sono ora gli strumenti che utilizzo come in Seminati, una composizione che lega la ripetizione del canto sacro alla benedizione della semina, del mio paesino di origine, ai concetti di iterazione. Il contesto sacro come in Sento l’amaro pianto e quello profano si legano in giornate dedicate in cui il travestimento ha un ruolo centrale. L’immedesimazione, la teatralità sono mezzi con i quali la popolazione si immedesima in soggetti storici e sacri in una festa popolare e nell’“ebrezza sacra” della stessa. I suoni elettronici in questo caso sono un modo dunque di partecipare ancora a questa ebbrezza con strumenti non peculiari della realtà sacra, ma il cui risultato sonoro arriva a suscitare nell’ascolto le stesse caratteristiche. In Le jour des saints innocents con l’artista Irene Mathilda Alaimo abbiamo proprio riflettuto sullo scambio di spazi e sul ruolo del gioco come sospensione degli interdetti nella dimensione dello scambio, dove i campionamenti sacri finivano per confondersi con quelli elettronici, in molti casi immaginati distanti da questi.
Quali sono i tuoi progetti futuri? Hai qualche mostra in cantiere?
Penso che in futuro continuerò a lavorare certamente con il suono e con l’ascolto integrando, come al solito, diversi medium. Confesso di non vedere l’ora di avere molto più tempo da dedicare ad alcune residenze per poter lavorare in situ sui temi su cui ci siamo soffermati prima. Ci sono alcune mostre avviate come la bipersonale OVER GREEN al Museo delle Arti di Carrara (mudaC) curata da Elena Perugi, la mostra collettiva Overlapping Heads a Venezia curata da Filippo Maggia e una mostra su più sedi dal titolo Esse Potest: compresenze impossibili tra Brescia e Cremona.
Le jour des saints innocents, performance presso PASE PLATFORM, 2024, ph. credits Matteo Giardiello
Fix it till you make it, veduta installativa presso Fondazione Bevilacqua La Masa, 2025
Tre canti, performance presso spazio TORRSO, 2024, ph. credits Marco Augusto Basso
MUTE, disco LP, 2023