Incontriamo Ho Jae in un soffocante sabato di fine agosto, con un cielo su Brooklyn incerto se piovere o trattenere tutta l’umidità. Originario della Corea del Sud, Ho Jae vive a New York da qualche anno, lavorando come artista e impegnandosi attivamente a sostenere le voci di altri artisti emergenti del BIPIC con la sua organizzazione, “Civil Art”.
Lo studio dell’artista doveva essere pressoché vuoto, da quanto ha detto inizialmente, avendo appena spedito tutto per una personale a Seoul e per la sua mostra appena inaugurata negli Hamptons. Tuttavia, entrando, vediamo che ci sono ancora quattro dipinti sulla parete, tutti in corso.
Lo studio di Ho Jae si trova in un tipico edificio di mattoni a Brooklyn, che nel tempo è stato trasformato in studio, ufficio, luogo di ritrovo e casa.
L’approccio estremamente rigoroso e professionale che l’artista ha rispetto alla sua pratica lo ha portato a separare il suo “ufficio” dal luogo in cui dipinge.
Come scopriremo poi nel corso della conversazione, queste due stanze separate rappresentano anche due fasi distinte del suo processo artistico: la concezione dell’immagine e il suo trasferimento e traduzione sulla tela.
È in ufficio davanti a un rendering indesign che Ho Jae ci rivela l’intricato processo che lo guida attraverso i suoi affascinanti ed enigmatici dipinti.
Come ci spiega una volta seduti, il suo linguaggio visivo trova la propria fonte di ispirazione principale dalla sua profonda fascinazione per l’eterea perfezione dell’arte del pittore del primo Rinascimento Piero Della Francesca. Essendo sia un artista che un matematico, Della Francesca calcolava perfettamente lo spazio nei suoi dipinti; ogni cosa era posizionata in un equilibrio perfetto e con una distanza calibrata tra altri elementi per creare sia un senso di profondità spaziale che di realtà fisica e tangibile, elevando contemporaneamente il tutto a un alto ordine di perfezione cosmica e classica che rendeva i suoi dipinti così misteriosi e senza tempo.
Cercando di ottenere la stessa perfezione nella gestione dello spazio, pur non essendo molto bravo in matematica, Ho Jae ha trovato quindi nelle possibilità offerte dalle nuove tecnologie e dal rendering digitale un modo per studiare alla massima perfezione lo spazio e le composizioni che saranno poi applicate ai suoi dipinti.Questo passaggio attraverso il software gli consente di studiare le sensazioni cromatiche e luminose, oltre allo stato psicologico che intende trasmettere. Ne nasce un effetto pixelato che l’artista traduce sulla tela, creando un risultato nebuloso e sfumato, caratterizzato da un uso drammatico di luci e ombre. Questo processo spiega come i dipinti di Ho Jae Kim sembrino esistere in un limbo tra tempo e spazio, memoria e fantasia, malinconia e serendipità.
Da questo processo deriva anche la qualità cinematografica che caratterizza i lavori di Ho Jae Kim, in cui la scena viene sospesa nel tempo e nello spazio grazie a un uso drammatico delle luci e dell’atmosfera. Le immagini che l’artista ritrae sono composizioni accuratamente messe in scena, ma allo stesso tempo rispondono a qualcosa che affiora sia dal suo subconscio sia da quello collettivo. L’approccio di Kim all’immagine attinge, in modo più o meno intenzionale, agli archetipi universali che attraversano epoche e civiltà, rispondendo al comune bisogno di rappresentare visivamente la condizione umana. Con cura, Kim introduce una serie di presenze simboliche e indizi visivi misteriosi nelle sue scene, evitando rappresentazioni dirette ed esplicite. Anziché seguire una narrazione lineare, questi elementi spingono lo spettatore a decodificare le immagini e a identificarsi con esse.
Nel approfondire le tematiche principali su cui si incentra la sua opera Ho Jae Kim spiega come la nozione centrale di purgatorio finisca per ispirare tutto il suo lavoro. L’artista concepisce il purgatorio come un luogo di transizione in cui le cose possono accadere, ma tutto è ancora sospeso, in un’esistenza potenziale o incerta, che lascia solo la possibilità di attendere la loro manifestazione o il loro completamento.
Kim afferma: “Al di là della religione, ci sono molti purgatori nella nostra vita contemporanea, momenti in cui non siamo né qui né là, ma in qualche luogo indefinito. Che si tratti di cercare la propria identità, di stare seduti su un lungo volo tra Paesi, o di camminare sotto infinite impalcature e cantieri a New York, esistiamo in e intorno a stati indeterminati.”
I dipinti di Ho Jae Kim si collocano così in uno spazio liminale tra reale e irreale, finzione e cronaca, subconscio e paesaggio onirico, rappresentando quel momento in cui tutto ciò che abbiamo sentito, percepito, immaginato o sognato è ancora in fase di elaborazione, in attesa di un necessario processo di creazione di significato, un processo che quei frammenti di esperienza talvolta finiscono per sfidare.
A partire dal tema del purgatorio, Kim ha sviluppato numerose variazioni ed esplorazioni, evocando quei momenti esistenziali di transizione che viviamo quotidianamente. Come ha sottolineato durante la nostra conversazione, tutti noi tendiamo a ricordare principalmente i momenti di festa o di sofferenza. Tuttavia, la maggior parte della nostra vita si svolge proprio attraverso questi spazi e momenti transitori e liminali che ci conducono agli eventi significativi.
Con il svilupparsi della nostra conversazione, ci spostiamo poi dall’ufficio allo “spazio di lavoro” di fronte alle opere, dove Ho Jae Kim ci spiega meglio il complesso e lungo processo a più livelli che sta dietro a ciascuna di queste opere.
In questo senso, Ho Jae Kim ammette che il suo lavoro è influenzato dalla fascinazione per Caspar David Friedrich, condividendone l’approccio drammatico che svela la fragilità e la finitezza umana di fronte all’infinito ciclo vitale della natura. Allo stesso tempo, i suoi personaggi sembrano confrontarsi con un sublime che esiste sia all’esterno che all’interno di loro stessi, riscoprendo e abbracciando le infinite opportunità creative dell’anima.
L’uso drammatico della luce ha però anche significati filosofici più profondi, al di là di una scelta estetica apparentemente semplice. In particolare, l’opera di Ho Jae Kim si ispira al mito della Caverna di Platone: queste luci funzionano come miraggi, spingendo a uscire e a vedere le cose nella loro reale essenza, anziché come semplici proiezioni, invitando a confrontarsi con il mondo interiore ed esteriore.
Come spiega Ho Jae Kim: “Nelle mie opere, creo spazi e mondi immaginari illuminati interamente da dietro. I miei spettatori sono costretti a fissare la luce intensa, le figure che si stagliano e gli ambienti di fronte a loro. La luce e l’ombra fanno riferimento all’allegoria della caverna di Platone, dove la realtà del prigioniero è fatta solo di ombre, mai degli oggetti reali o della luce fuori dalla caverna. Estendo lo spazio immaginario in profondità nel piano dell’immagine e metto i miei spettatori di fronte agli oggetti monumentali e alla luce che hanno davanti. Spero così di permettere al mio pubblico di cercare la verità che esiste al di là delle ombre”.
Il tema del sublime, della finitudine umana e del potenziale risveglio verso scopi più elevati è centrale anche nell’ultima serie che Ho Jae Kim ha sviluppato per le sue mostre in Corea del Sud, presso Gana Art, e negli Hamptons, NY, da Harper’s. Ispirandosi al film Cast Away (2000), diretto da Robert Zemeckis, l’artista ha ricreato questa narrazione epica seguendo le vicende del protagonista Chuck, un uomo abbandonato su un’isola deserta dopo un incidente aereo, costretto a confrontarsi non solo con le sfide della natura, ma soprattutto con il suo io più profondo nella solitudine. Questa stessa solitudine è una condizione che anche un artista deve affrontare nel suo studio.
Questa serie mette in luce come i dipinti di Ho Jae Kim diventino sempre più uno strumento di interrogazione esistenziale del sé, esplorando pulsioni e motivazioni più profonde, oltre la superficie del reale. I sentimenti di solitudine e la responsabilità individuale sono centrali nelle opere di Kim, poiché la sua pratica artistica, proprio come per Chuck, diventa sia un esercizio esteriore sia una lotta interiore per riconnettersi con se stessi in relazione agli eventi circostanti.
Sospesa tra disperazione e raccoglimento interiore, l’arte di Kim rappresenta momenti di auto-contemplazione, tra la spinta alla trascendenza e la mondanità, tra i limiti del corpo fisico con i suoi bisogni e desideri, e una tendenza spirituale superiore che l’arte permette di toccare.
Come afferma Ho Jae Kim: “Prima della mia prima mostra personale con Harper’s a New York, il mio sogno di essere un pittore a tempo pieno sembrava irrealizzabile. Ero davvero solo con i miei dipinti nel mio studio, la mia isola deserta. Desideravo che qualcuno visitasse il mio studio, riconoscesse i miei dipinti, e che io esistessi”.
Alla fine, la solitudine dei personaggi ritratti da Ho Jae Kim diventa un’opportunità per la contemplazione interiore ed esteriore, che, sebbene spesso dolorosa, consente di accedere a verità più profonde.
Questa conversazione in studio sulla pratica in continua evoluzione dell’artista chiarisce come il lavoro di Ho Jae Kim trovi origine e sostanza in un profondo bisogno di creazione, che ispira l’arte migliore. Tra sofferenza e redenzione, la sua pratica affronta le domande esistenziali che tutti gli esseri umani si pongono: dalla ricerca di uno scopo superiore al semplice desiderio di una sopravvivenza piena e sana, lottando con un senso ultimo della realtà e con eventi che sono per lo più oltre la comprensione umana. Qualcosa di cui forse non riusciremo mai a cogliere appieno la vera natura, ma il cui mistero possiamo almeno avvicinare e interrogare attraverso il linguaggio simbolico dell’arte.