Gennaio 2025
La tredicesima edizione del Premio Francesco Fabbri per le Arti Contemporanee ha visto quest’anno come vincitore della sezione Fotografia contemporanea il giovane fotografo torinese Alessandro Truffa.
Lo abbiamo incontrato per approfondire con lui i temi della sua ricerca fotografica intesa come modo per comprendere e indagare i fenomeni del reale come la crisi climatica, le credenze popolari e il rapporto uomo-ambiente.
L’opera premiata per la sezione fotografia contemporanea, Bee in a Test Tube, è un lightbox fotografico e fa parte del più ampio progetto di ricerca 432 Hz. In questo progetto intrecci fotografia documentaristica e narrazione pseudoscientifica per mettere in discussione i pregiudizi umani che emergono durante lo studio del comportamento di altri esseri viventi, in questo caso delle api. Il progetto crea uno spazio di coesistenza tra specie che si muove tra finzione e dato scientifico. Come nasce questo progetto? Cosa ti interessava dimostrare?
L’opera singola presentata al Premio Fabbri, Bee in a test tube, può essere definita come una sorta di sinestesia, perché si tratta del tentativo di visualizzare un suono, traducendo in impulsi luminosi il canto di un’ape regina.
Il progetto 432 Hz, attualmente in corso, è nato in un momento preciso in cui ho iniziato a fare ricerca sulla relazione uomo-impollinatori, perché mi interessava indagare come l’uomo si relaziona, spesso non senza pregiudizi, al tema dell’intelligenza animale. In quel periodo stavo scattando delle fotografie all’interno di un laboratorio di ricerca universitario che si occupa di studiare gli impollinatori e, in particolare, l’impatto dei pesticidi sulle loro capacità motorie e sulla loro fertilità. Per spiegare in maniera immediata ciò che mi interessa parto sempre da una citazione di Marx che viene contestata da Timothy Morton in “Ecologia oscura”: “la migliore delle api è pur sempre peggiore del peggiore degli architetti”. Questo pensiero presuppone in qualche modo un pregiudizio di posizionamento dell’uomo rispetto all’animale, poiché laddove un’ape eseguirebbe solamente un mero algoritmo, come un automa privo di coscienza, l’architetto, invece, sarebbe sempre un autore consapevole del proprio operato. Esistono, quindi, delle dinamiche inconsce che ci condizionano nel relazionarci ad altre forme di vita – come ad esempio l’idea che cervelli piccoli non siano in grado di eseguire compiti complessi – e in questo senso si producono lacune e punti ciechi nel nostro modo di tradurre e interpretare il linguaggio e il comportamento animale. All’interno del testo “Nella menta di un’ape” Lars Chittka cita diversi esperimenti per cercare di decostruire questi meccanismi come, ad esempio, quelli di Charles Henry Turner, un entomologo vissuto tra la seconda metà del XIX secolo e l’inizio del XX, che fu il primo a dimostrare empiricamente che le api costruiscono la posizione del nido usando dei punti di riferimento spaziali. Dopo aver notato che un’ape solitaria aveva costruito il suo nido vicino al tappo di una Coca Cola lasciato per strada, spostò il tappo vicino ad un nido artificiale costruito ad hoc osservando come l’ape entrasse senza alcuna esitazione nella nuova tana. Egli riuscì quindi a dimostrare che l’ape aveva una memoria per punti di riferimento piuttosto che per istinto.
Il progetto 432 Hz si compone di fotografie di documentazione che si intrecciano ad immagini che raffigurano esperimenti scientifici fittizi che cercano di mettere in crisi le nostre certezze su ciò che sappiamo degli animali, per porre domande più che affermare delle tesi. Il lavoro esplora, quindi, attraverso la fotografia il ruolo che un’immagine può avere nel passare da strumento probatorio e scientifico a strumento in grado di costruire delle verità immaginifiche.
Un altro progetto recente è Boja Fauss che nasce invece da una vicenda storica: l’ultima applicazione della legge capitale in Italia avvenuta a Torino nel 1947. Questo fatto si unisce alla leggenda locale che vuole che quando un boia acquistava del pane glielo si porgesse al contrario come segno di disprezzo; a causa delle rimostranze dei boia e alla successiva ordinanza che vietava tale pratica nacque il pan carré, forma di pane quadrata dove era impossibile distinguere l’alto dal basso. Questo permise di continuare a sbeffeggiare i boia porgendogli il pane al contrario. Il pan carré nel tuo progetto è riletto come strumento di dissenso verso una figura vista come l’incarnazione del controllo esercitato dal potere. Boja Fauss è un progetto che interseca storia orale e storia ufficiale, in che modo questo emerge dalle immagini? Il libro, che ricalca la forma del pan carré appunto, che immagini contiene?
La struttura della pubblicazione e la scelta di riprendere il libro intonso sono state funzionali ad occultare le immagini all’interno delle pagine per ricreare, in chiave ludica, quella dimensione di esoterismo che era anche alla base della leggenda di partenza.
All’interno del progetto sono presenti diverse tipologie di immagini che lavorano sulla stratificazione prodotta intorno a questo tema, orientando la ricerca non tanto su una direzione specifica, ma sulla contaminazione di approcci e metodologie differenti. Mi interessava molto lavorare sul dialogo tra storia ufficiale e storia popolare, quindi tra un approccio più istituzionale e uno più esplorativo, legato alle suggestioni che si sono create intorno a questo tema. Una parte della ricerca si è, quindi, basata sullo studio di diversi materiali d’archivio che fanno riferimento alla cronaca e alla storia ufficiale, come documenti giudiziari e fotografie di cronaca pubblicate sui giornali. Questi materiali sono stati ricercati e fotografati in diverse istituzioni di Torino, come l’Archivio Storico e l’Archivio di Stato. Ho, inoltre, scattato delle fotografie all’interno di luoghi storici come la Chiesa della Misericordia o in spazi del ricordo come il Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso e il Museo del Carcere Le Nuove. Queste immagini creano un percorso archeologico nella cupa memoria di questi eventi storici che serve per tracciare delle coordinate concrete all’interno del lavoro.
A questi materiali storici ho affiancato immagini legate più a delle suggestioni, come, ad esempio, una serie di blocchi di pane quadrati che ho cucinato e fotografato come se fossero pietre, per rimandare a questo uso semantico del pane che, ovviamente, si intreccia profondamente con la cultura cristiana. Altre immagini partono, invece, da alcune suggestioni linguistiche ed etimologiche come, ad esempio, lo scarafaggio. Nel dialetto piemontese, infatti, la parola ‘boia’ (spesso storpiata in ‘baboia’) ha un duplice significato: da un lato quello di ‘esecutore di giustizia’ e dall’altro quello di ‘scarafaggio’ e ‘insetto’. Allo stesso modo le catene alludono sempre all’etimologia greca di questa parola. Il termine greco ‘boeiai’ indicava le strisce in cuoio di bue e da questo termine deriverebbe il latino ‘boia’, utilizzato sia col significato di ‘laccio’, ‘catena’, ‘strumento di tortura’ sia per identificare ‘l’esecutore di giustizia’.
Vi sono anche immagini che partono da suggestioni legate alla magia come il corvo che, oltre ad essere uno degli animali che più amo, è anche simbolo, nel processo alchemico, della prima fase: la nigredo, il momento in cui occorre ‘macerare’ tutti gli ingredienti in un’unica massa uniforme e nera. Per questa stessa ragione, infine, le varie tipologie di materiali non sono separate all’interno del libro, ma vengono amalgamate in un’unica narrazione creando connessioni e legami tra ambiti conoscitivi differenti.
Con la tua pratica interroghi l’uso della fotografia come strumento conoscitivo del reale, sfidi i confini tra immaginario e concreto, e cerchi di infilarti nelle lacune dei processi di costruzione del sapere. La fotografia si contamina con altre discipline come le scienze naturali, la semiotica e l’antropologia, e la foto da documento diventa un elemento narrativo. Mi dici di più di come questo si applica ai tuoi progetti?
Nei miei progetti cerco sempre di lavorare sulla stratificazione e sulla contaminazione di più approcci, mi piace utilizzare la fotografia come uno strumento di indagine, senza intenderla mai come ancella di qualche disciplina specifica, ma piuttosto come un linguaggio autonomo in grado di inserirsi in determinati processi ed elaborare propri risultati. Allo stesso tempo non penso alla singola immagine fotografica come scopo finale del mio lavoro, difficilmente lavoro sulla serie, ma piuttosto sulla costruzione di progetti che utilizzano sempre linguaggi e materiali differenti legati a vari ambiti del sapere, perché sono convinto che la conoscenza nasca sempre dalla pluralità di approcci e visioni. Indagando un tema e sviluppando una ricerca provo a far dialogare il mio sguardo e le immagini che produco con materiali d’archivio preesistenti oppure prodotti dai soggetti con cui mi relaziono.
Uno dei miei primi lavori in cui ho sperimentato questa metodologia progettuale è stato Fuoco contro fuoco, che nasceva dalla fascinazione personale per una pratica di medicina alternativa per la guarigione del Fuoco di Sant’Antonio, che ho scoperto essere praticata da una guaritrice che vive nella mia città natale. Ciò su cui ho voluto riflettere, attraverso quel lavoro, oltre al rituale e alla sua natura omeopatica, sono state le lacune che, inevitabilmente, si verificano in ogni processo di trasmissione della conoscenza. Per questo motivo, una parte del lavoro si è basata sulla creazione di un cortocircuito visivo di immagini che appartengono a diversi campi, come scienza, natura e religione, nel cui insieme indistinto si nasconde l’origine stessa del rituale. Alcune immagini, infine, sono state prodotte direttamente dalla guaritrice, segnando la carta fotografica con i chimici da stampa come se fosse pelle. Fu un esperimento molto interessante quello di far segnare la carta fotografica dalla guaritrice, perché in questo modo fu in grado di spiegarmi che ogni segno che lei praticava corrispondeva ad un tipo specifico di manifestazione cutanea della malattia, non a caso diversi antropologi chiamato queste figure ‘donne dei segni’. Queste ultime immagini si alternano ad un’intervista, un dialogo tra me e la guaritrice, che mi ha permesso di inserire nel lavoro materiali che non fossero esclusivamente prodotti dal mio sguardo e di farli interagire direttamente con il suo personale racconto sulla sua pratica.
La fotografia, per me, esiste in un paradosso: se da un lato è considerata socialmente una forma di testimonianza, dall’altro può anche essere uno strumento menzognero con cui costruire delle verità alternative. Questa dualità mi interessa per le possibilità che offre di andare oltre a ciò che accettiamo come ‘reale’ e lavorare nella sfera del ‘possibile’. In 432 Hz questo emerge, ad esempio, dalla combinazione tra la documentazione scientifica prodotta nei laboratori di ricerca, le immagini prodotte dall’osservazione empirica degli insetti impollinatori e la creazione di esperimenti fittizi.
In Boja Fauss, invece, cronaca e leggenda si intrecciano in una narrazione dove la leggenda fornisce degli elementi per comprendere più in profondità il trauma che la storia ufficiale ha prodotto nella cultura popolare.
Questo modo di lavorare con più livelli riflette la mia idea di fotografia come strumento ideale per creare complessità e per far interagire la mia visione della realtà con materiali diversi, costruendo relazioni e dialoghi.
Su cosa stai lavorando attualmente?
Oltre a portare avanti il progetto 432 Hz, attualmente sto facendo ricerca per una residenza artistica che farò ad aprile nella foresta di Dalby in Inghilterra. Si tratta di un’opportunità molto bella che ho ricevuto come premio per la mia partecipazione come finalista alla mostra di Giovane Fotografia Italiana, per il Premio Luigi Ghirri, durante il festival di Fotografia Europea del 2024. Il progetto, sostenuto da Photoworks e dall’Istituto Italiano di Cultura di Londra, mi darà la possibilità di trascorrere una decina di giorni a Dalby per fare ricerca su pratiche ecologiche e ambientali e di partecipare a visite e incontri con organizzazioni artistiche nazionali e locali e di restituire l’esperienza in un evento all’IIC di Londra.
Sarà sicuramente interessante per la mia crescita e per lo sviluppo di nuovi temi.
Alessandro Truffa, 432 Hz, 2023, lightbox e serie fotografica
Alessandro Truffa, Boja Fauss, 2023, libro
Alessandro Truffa, Nioko Bokk, 2023, veduta installativa presso Contaminazioni – Giovane Fotografia Italiana #11 – Premio Luigi Ghirri, Palazzo dei Musei (Reggio Emilia), ph. credit: Bruno Cattani.