Iris Buchholz Chocolate – intervista

Nata in Germania, Iris Buchholz Chocolate vive e lavora in Luanda. Indaga le nozioni di percezione e di memoria, al crocevia tra il canone della storia e l’archivio della memoria collettiva. Lavora con artigiani locali per sviluppare una narrativa poetica che copra diversi periodi e si interroga su come questi interferiscono e diventano parte della memoria collettiva e individuale.

Vivi a Luanda da più di un decennio e forse ti è capitato, più di una volta, che le persone ti abbiano presa per angolana. Puoi raccontarci questa tua simbiosi con l’arte e la cultura angolana?

Completata l’università, stavo viaggiando zaino in spalla in Sudafrica e per caso ho incontrato l’artista angolano Fernando Alvim che, di lì a poco, mi ha invitato a Bruxelles per unirmi a Camouflage Brussels. Con i suoi 300 mq di spazio espositivo, le pubblicazioni Coartnews, l’archivio Autopsia e il programma di residenza Área, Camouflage Brussels è stato uno dei primi spazi artistici in Europa a promuovere l’arte contemporanea dall’Africa. Il mio obiettivo era conseguire un master in arte, ma gli anni passati a Bruxelles, circondata da intellettuali e artisti africani, che gestivano una delle più grandi collezioni d’arte contemporanea africana dell’epoca, si è rivelato il miglior programma di master che avrei mai potuto desiderare. Ho scritto la mia tesi finale all’università sullo spazio della volontà politica, e a Bruxelles ho trovato un gruppo di africani che cercavano di farsi sentire nella scena artistica internazionale. Mi sono unita alla loro causa. Va ricordato che nei primi anni 2000 per molti curatori europei l’arte africana contemporanea non esisteva nemmeno. Nel frattempo, la maggior parte degli artisti e curatori che hanno esposto da noi all’inizio della carriera si è affermata nella scena artistica internazionale, ad esempio Otobong Nkanga o Elvira Dyangani Ose. Fortunatamente, 20 anni dopo, nessuno dubita dell’esistenza di una fiorente scena artistica in Africa e nella sua diaspora. Nel sistema di istruzione europeo, non necessariamente impariamo a vederci attraverso gli occhi degli altri, né apprendiamo ciò che l’imperialismo ha fatto e tuttora causa alle società interessate. Tutto mi è diventato chiaro nel 2003, in Angola, appena ho iniziato a lavorare con il team che ha istituito la prima Trienal de Luanda, che ha prodotto la prima generazione di artisti angolani di successo internazionale, come Kiluanji Kia Henda, Nástio Mosquito o Edson Chagas. Ora è già il turno della generazione più giovane con Helena Uambembe o Sandra Poulson e sono felice di aver fatto parte di questo processo. A un certo punto del percorso, probabilmente anche io sono diventata angolana, avendo sostenuto la stessa causa per tutti questi anni. Questa è la comunità in cui vivo, su cui rifletto, a cui insegno, con cui condivido i problemi e collaboro. Gli sponsor angolani rendono possibili i miei progetti. Le prime collezioni a cui ho venduto le mie opere sono angolane. Più di una volta ho ricevuto il complimento “sei una di noi”, ma ovviamente riconosco che il mio sguardo viene anche dall’esterno. Fin dall’inizio ho fatto la scelta consapevole di mantenere anche il mio cognome tedesco, e attraverso il mio lavoro cerco di capire sia la cultura che mi ha formato che la cultura in cui vivo.

 

Gli ultimi due anni sono stati impegnativi per tutti, non soltanto in termini di salute e di modo di vivere, ma anche per quanto riguarda le prospettive professionali. Che impatto ha avuto questo periodo sulla tua arte?

Gli antichi egizi ritenevano che il primo e fondamentale ingrediente dell’universo fosse il caos. Può spazzarti via, ma rappresenta anche il luogo da cui tutte le cose riprendono vita. Qui, in Angola, molto spesso bisogna reagire a situazioni che non sono prevedibili. Per natura, gli angolani sono professionisti della resilienza, tanto le crisi sono onnipresenti e molteplici: le conseguenze dell’oppressione e della guerra, le infrastrutture trascurate, la salute, l’istruzione e i servizi amministrativi entrano nella vita come traumi, ansia, mancanza di elettricità o acqua, buchi sulle strade, funerali frequenti, focolai di malaria o febbre gialla o situazioni kafkiane nella burocrazia. Aggiungiamo anche l’inflazione e le decisioni devastanti del FMI sull’economia del Paese. Qui la pandemia è solo un altro dei tanti problemi che la società deve comunque affrontare. Solo pochi hanno il lusso di lavorare da casa, quindi la vita continua – con restrizioni, ovviamente – più o meno nello stesso modo. Un lockdown duro non è possibile in un paese dove molti vivono di quello che guadagnano alla giornata. Fortunatamente il 65% della popolazione ha meno di 25 anni, e questo può essere un vantaggio, anche se sono abbastanza sicura che i tassi di mortalità siano molto più alti in tutto il continente da quando è iniziata la pandemia, ma ciò che non si conta non compare nelle statistiche. Per quanto riguarda il mio lavoro, poiché la 17ª Biennale di Architettura di Venezia è stata posticipata al 2021, abbiamo avuto tutto il 2020 a disposizione – fortunatamente – per preparare la nostra partecipazione con Svelare le ambiguità urbane – Prédio do Livro. La sfida era quella di creare qualcosa di dimensioni enormi, ma con il minor peso e volume da trasportare possibili. Dopo numerose prove, ho escogitato una soluzione: per la parte alta del progetto: ho realizzato un’installazione poetica, Emozioni che piovono nei corpi delle persone, scorrendo in sogni, composta da 8.665 nastri segnalibro che rimandano alle storie e ai ricordi del Prédio do Livro. Il progetto è nato pensando a tutte le persone che hanno vissuto, amato e forse sono morte in questo edificio modernista a forma di libro, dall’epoca coloniale ad oggi. Poiché si tiene il segno in un libro con un nastro segnalibro, ogni nastro simboleggia un momento nella vita. L’unica cosa su cui possiamo fare affidamento è il fatto che “tutte le cose sono momentanee e svaniscono”. Gli scienziati hanno sviluppato una profonda comprensione dei modelli di cambiamento e stabilità dell’universo. Da un giorno all’altro, le molecole d’acqua che scorrono in un fiume cambiano completamente, eppure il fiume può apparire sempre lo stesso per millenni. I filosofi del neoconfucianesimo hanno compreso che tutti gli schemi dell’universo si influenzano a vicenda, proprio come molteplici increspature su un lago che si intersecano e creano nuovi disegni. Allo stesso modo, i nastri creano increspature e motivi, si muovono e interagiscono come un organismo vivente mentre il vento li attraversa. Movimenti piccoli o grandi invitano l’osservatore a meditare e sognare. Alla fine, per mancanza di fondi, a Venezia è stata esposta solo la parte inferiore dell’opera: un tavolo luminoso con un modellino. La parte superiore mancante dell’installazione è stata fortunatamente esposta successivamente, durante la Bienal de Luanda: Fórum Pan-Africano para a Cultura de Paz, nel novembre 2021. Questo significa che, nel tempo e nello spazio, in due biennali, in due continenti, l’idea iniziale si è materializzata.

 

Nei tuoi progetti ti riferisci spesso alla cultura locale come substrato che modella le identità culturali. Come percepisci il ruolo dell’appartenenza locale in un mondo in rapida evoluzione, in cui la globalità sembra aver inghiottito molte delle caratteristiche che, sino a pochi decenni fa, rappresentavano la differenza tra i popoli e le culture?

Penso che sia essenziale preservare le diverse identità culturali per evitare che la visione del mondo ancora dominante del consumismo fonda tutto globalmente, rendendo ogni cosa irriconoscibile, sfruttando ciò che resta della nostra madre terra. Quando, nella mia arte, ho iniziato a riflettere sulle storie angolane, l’artigianato locale mi è sembrato lo strumento giusto per capire molte cose. Le visioni del mondo dei popoli indigeni contengono la saggezza tanto necessaria per cambiare il nostro comportamento nei confronti della natura e più le nostre vite vanno in modo inarrestabile verso il digitale, più mi sento di onorare l’antica conoscenza dell’artigianato. Già sapete, forse, che i portoghesi introdussero la “politica dell’assimilazione” nelle loro colonie, il che significava che le uniche persone di colore a cui era permesso di camminare sull’asfalto o accedere all’istruzione dovevano parlare, vestirsi e comportarsi da portoghese, rischiando, in qualsiasi momento avessero fatto ricorso alla propria lingua madre, di perdere il passaporto dell’assimilazione. In un certo senso, l’apartheid, pratica altrettanto brutale, sembrava più onesta, dichiarando apertamente che l’altro era inferiore. Eppure le comunità hanno continuato a esistere con la loro eredità ancestrale, la cultura orale, i rituali, la musica e così via. Ovviamente è la cosiddetta élite assimilata di allora che oggi guida il Paese. Non è colpa di nessuno, è ciò che la storia si è lasciata dietro, ma per sanare questo devastante passato doloroso è fondamentale capire perché le persone si comportano in un certo modo. Naturalmente, la maggior parte della popolazione parla portoghese come seconda lingua, poiché il sistema educativo è quello che è, è difficile imparare il portoghese corretto a scuola, ancor di più se non lo si sente a casa, con il risultato che gli angolani che parlano portoghese fluente spesso guardano dall’alto in basso i propri concittadini, considerandoli meno degni. Analogamente, c’è un tira e molla tra l’essere orgogliosi della tradizione, che è l’identità locale (compresi gli artigiani), e disprezzarla come arretrata. Questo è il dramma, la ferita, che intendo restituire alla società nelle mie rappresentazioni. Il silenzio tra generazioni, che conosco fin troppo bene dalla storia delle mie famiglie, sembra essere assordante. È doloroso chiedere ai propri genitori e nonni del periodo del dominio coloniale o guardare ancora più in profondità nel proprio lignaggio ancestrale. Anche il nostro cognome, “Chocolate”, è ovviamente un lascito dell’epoca coloniale. La cosa triste è che nessuno dei nostri famigliari ricorda il nome originario della famiglia. La cancellazione della cultura inizia con la cancellazione del nome, un elemento cruciale dell’identità. È un nome che riflette la storia del paese. Chiunque si interroghi sul nome “Chocolate” sta già riflettendo sul colonialismo. Com’è successo anche in Brasile dove, dopo la liberazione, gli ex schiavi presero il nome dei proprietari delle piantagioni per cui lavoravano. L’aumento delle disuguaglianze estreme sta facendo a pezzi la società angolana. E questo ci fa capire che il vero benessere può esistere solo all’interno di una comunità florida, integrata in una società sana e in un mondo naturale fiorente. L’arte mi consente di riflettere sulle geografie umane, di produrre opere incentrate sulla memoria, descrivere il dolore, salvaguardare l’esistenza vissuta dall’oblio, e mi permette di pensare al futuro indagando l’artigianato e i materiali naturali. Rifletto sulle realtà coscienti, sulla comunicazione e sulle forme di comunità, perché solo nello specchio della vita degli altri possiamo comprendere la nostra stessa vita. Solo agli occhi dell’altro possiamo diventare noi stessi.

 

Quali sono i tuoi prossimi progetti? Il mio lavoro è basato sulla ricerca e molto spesso comprende un lungo periodo di studio. In questo momento mi sto concentrando in particolare su un grande progetto espositivo: Di che colore è il vento?

Questo progetto introduce il concetto di Lugânzi – L’archivio vivente, una piattaforma di ricerca per l’istruzione, l’arte e la cultura. La mostra esporrà le opere delle serie delle Realtà mobili e Colori consapevoli, che indagano le forme dello stare insieme e l’uso di colori urbani, rurali e ancestrali. Ciò deriva dalle mie prime mostre a Luanda e dalla mia collaborazione con la curatrice angolana Tila Likunzi. Abbiamo investito molto tempo nella realizzazione di programmi educativi che accompagnano le mostre. L’impatto di questi programmi è stato enorme. Abbiamo introdotto una novità nelle mostre: spiegazioni di alcuni aspetti culturali, filosofici o storici che stanno dietro l’arte. L’iniziativa ha fatto capire a molti spettatori consapevoli che nella loro istruzione manca un elemento cruciale: l’accesso alla conoscenza delle proprie radici culturali e storiche. È qui che ha preso forma l’idea di Lugânzi (che significa radici nella lingua africana iwoyo): è un archivio digitale gratuito, una piattaforma di ricerca e pubblicazione per l’esplorazione, la produzione e la condivisione di conoscenze sulle arti, le lingue, le filosofie, le credenze e i costumi dell’Africa e dell’Angola, ancestrali e contemporanei. Dopo alcuni anni di preparazione, abbiamo finalizzato il sito web. L’idea sarà presentata con la mostra, che condividerà il nostro progetto pilota, sia fisicamente che online. Speriamo di trovare partner e studiosi che la pensano come noi per dare il via a un programma più ampio il prossimo anno. Una delle mie citazioni preferite di Lugânzi è: “Il processo di decolonizzazione del pensiero e disapprendimento dei complessi che ci arrivano dalle eredità coloniali e moderne è impegnativo, ma conoscere le proprie radici è il primo passo per vivere realtà consapevoli capaci di generare opere ed esseri veramente indipendenti”. Con questo progetto, sono molto felice di mettermi al servizio della società angolana e condividere la vasta conoscenza che ho acquisito, e che continuerò ad apprendere, durante la mia vita professionale.

 

PHOTO CREDITS

A Metamorfose Sculpture: Mixed media, metal, handcrafted panels braided out of dry plants, 600 x 250 x 250 cm, 2010 Conceived for II Trienal de Luanda.
Photo credits: Claudio Chocolate

Okufeti(ka) – Exhibition view Iris Buchholz Chocolate, Jahmek Contemporary, Luanda, 2019
Photo credits: Claudio Chocolate

A Sul. O Sombreiro — luvas com missangas Sculpture: Metal gountlets, fabric, braided artificial hair, feathers, 2015
Photo credits: Claudio Chocolate

Emotions Raining Inside People’s Bodies, Flowing Down into Dreams, conceived for the Venice Architecture Biennale, exhibited at Bienal de Luanda Installation: metal frame, PVC boards, 8.665 ribbons, 522 x 400 x 79 cm, 2021
Photo credits: Claudio Chocolate

Starbook, 2019 Drawing: Print on gauze, 2x (3x) 140 x 100 cm, brass supports
Photo credits: Claudio Chocolate

BIOGRAFIA

Nata in Germania nel 1974, Iris Buchholz Chocolate vive e lavora tra Luanda e Vienna. Ha conseguito la laurea presso la Merz Akademie, Università di Arti Applicate, Design e Media, Stoccarda, Germania, nel 1998. Dal 1999 al 2005 ha lavorato come assistente artistica e direttrice esecutiva di Camouflage Brussels – il satellite Europeo del Centro di Arte Contemporanea per l’Africa, dove ha co-curato un’importante collezione di arte africana contemporanea. Ha partecipato alla 11ª Biennale di Mercosul, Porto Alegre, Brasile, nel 2018, alla 2ª Bienal de Luanda nel 2021 e, in collaborazione con Paula Nascimento, alla 17ª Biennale di Architettura di Venezia, nel 2021. Al suo attivo, vanta partecipazioni a importanti mostre collettive, in Africa alla Trienal de Angola, Bienal de Luanda: Fórum Pan-Africano para a Cultura de Paz, Fuckin’ Globo Luanda, in Luanda; Rele Gallery Lagos e Abuja Art Week Digital, in Nigeria; negli Stati Uniti, al The Jewish Museum, New York; in America Latina alla 4ª Biennale di Montevideo; in Asia al Museo Nazionale di Singapore. Ha tenuto quattro importanti mostre personali in Luanda, presso Jahmek Contemporary Art, nel 2022 e 2019, MAAN (Memoriale del Dr. António Agostinho Neto) nel 2016 e MNHN Siexpo, nel 2013. Il suo lavoro spazia dal disegno al video, includendo installazioni, oggetti e fotografia. È particolarmente interessata alla collaborazione con artigiani locali per sviluppare una narrativa poetica che riunisca diversi periodi e si interroga su come queste interferiscano e diventino parte della memoria collettiva e individuale.

BIOGRAFIA

Nata in Germania nel 1974, Iris Buchholz Chocolate vive e lavora tra Luanda e Vienna. Ha conseguito la laurea presso la Merz Akademie, Università di Arti Applicate, Design e Media, Stoccarda, Germania, nel 1998. Dal 1999 al 2005 ha lavorato come assistente artistica e direttrice esecutiva di Camouflage Brussels – il satellite Europeo del Centro di Arte Contemporanea per l’Africa, dove ha co-curato un’importante collezione di arte africana contemporanea. Ha partecipato alla 11ª Biennale di Mercosul, Porto Alegre, Brasile, nel 2018, alla 2ª Bienal de Luanda nel 2021 e, in collaborazione con Paula Nascimento, alla 17ª Biennale di Architettura di Venezia, nel 2021. Al suo attivo, vanta partecipazioni a importanti mostre collettive, in Africa alla Trienal de Angola, Bienal de Luanda: Fórum Pan-Africano para a Cultura de Paz, Fuckin’ Globo Luanda, in Luanda; Rele Gallery Lagos e Abuja Art Week Digital, in Nigeria; negli Stati Uniti, al The Jewish Museum, New York; in America Latina alla 4ª Biennale di Montevideo; in Asia al Museo Nazionale di Singapore. Ha tenuto quattro importanti mostre personali in Luanda, presso Jahmek Contemporary Art, nel 2022 e 2019, MAAN (Memoriale del Dr. António Agostinho Neto) nel 2016 e MNHN Siexpo, nel 2013. Il suo lavoro spazia dal disegno al video, includendo installazioni, oggetti e fotografia. È particolarmente interessata alla collaborazione con artigiani locali per sviluppare una narrativa poetica che riunisca diversi periodi e si interroga su come queste interferiscano e diventino parte della memoria collettiva e individuale.

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