Attraverso la scomposizione e il remixaggio di strumenti e linguaggi musicali, traduci il suono in immagine. Una sintesi che non si limita ad essere un’opera di sound art, ma è il risultato di un’operazione metalinguistica. Come afferma la critica Bettina della Casa, il tuo lavoro potrebbe definirsi un’ecfrasi per la sua capacità di trasporre la musica in una suggestione visiva, creando un’immagine che indaga il linguaggio musicale. Secondo te in che modo una forma astratta come un suono può trovare la traduzione in oggetti e immagini? Sono il punto di partenza e arrivo o il processo è più sfumato?
In effetti si è trattato in questi anni di definire un processo di lavoro che via via conducesse a forme tridimensionali, simboliche ed espressive. Potremmo dire che il suono ci “tocca” sempre, pur rimanendo impalpabile. Il mio lavoro si focalizza sul gesto musicale, ossia quel preciso meta-linguaggio che è andato formandosi nei secoli per dirigere e dare ordine al suono organizzato. Isolando ciò che concorre alla formazione dello stesso (le onde sonore, i materiali fonoassorbenti e fonoriflettenti, il gesto direttoriale, i tasti di un pianoforte) ragiono di volta in volta sull’opera, che assume sostanza attingendo a un dettaglio, ad un ingranaggio specifico del meccanismo musicale, ad un materiale che risuona.
Che cosa ti interessa degli oggetti dall’aspetto vintage che compaiono in diverse tue opere? Ad esempio i pianoforti di “ABCDEFG”, gli astucci di “Pendulum Music” o le cornici vittoriane in “Stereofonia”.
Gli oggetti, dopo essere stati collezionati e ordinati, riposano a volte per mesi o anni nel mio studio. Il deposito del tempo si somma a quel processo di reazione poetica che intendo innescare ogni volta che completo un lavoro. Il tempo assume una sua propria dimensione visiva, tattile, cromatica, e concorre a definire l’oggetto stesso. Se il suono si sviluppa intorno all’asse orizzontale del tempo, e di volta in volta lo attraversa, mi piace pensare che anche un oggetto non sia un’entità fissa e immutabile, e dunque possa essere di per se stesso simile ad un suono in costante movimento.
Come è cambiata, se lo è, la tua ricerca artistica e visione del mondo durante la pandemia? In che modo ha influito sulla parte performativa del tuo lavoro?
La mia ricerca artistica è proseguita durante la pandemia, senza momenti cruciali di arresto. Più che altro è mutata la percezione del tempo. Senza fiere e a seguito di una drastica riduzione delle mostre, ho deciso di sistemare una serie di questioni tecniche relative alla realizzazione delle mie opere, studiando meglio i materiali e risolvendo alcuni aspetti relativi a quelle specifiche opere che producono suono. L’impossibilità di muoversi liberamente ha reso più difficile il mio “incontro” con gli oggetti, così come gli stimoli che naturalmente derivano dalla frequentazione di determinati luoghi.
Cosa ti aspetti nel futuro prossimo? Quali cambiamenti credi avverranno o cosa vorresti cambiasse nel sistema dell’arte?
Credo che al centro del dibattito dovrebbero tornare le mostre. Potrà apparire una banalità o la cosa più scontata, se non per il fatto che l’attenzione da diversi anni si è spostata più sulle fiere dell’arte che sulle mostre in galleria, così come la frequentazione degli studi degli artisti. Il modello della mia generazione in taluni casi è arrivato ad essere quello di un artista con il laptop, senza uno studio nel quale lavorare. Tutto appare sfuggente, troppo rapido.
Si fa un gran parlare di come cambierà il sistema dell’arte dopo la pandemia, e si compilano liste di buone intenzioni. Dal mio punto di vista non cambierà nulla. Forse gli artisti si renderanno conto che la bulimia dei social come strumento di comunicazione in realtà funziona come un recinto: gli artisti spiano gli artisti, e forse galleristi e collezionisti fanno lo stesso. Ma il sistema è chiuso e non produce autentica comunicazione, se non nel senso tecnico del termine. Mio padre era un artista astratto degli anni ‘60; il suo gruppo – Astrazione Oggettiva – si trovava al bar o al ristorante la sera per discutere. Ora non è più così. Difficilmente si ragiona e si discute sulle opere che un artista produce, più che altro si parla di dove sono esposte e da chi sono rappresentate. Forse ricominciare a trovarsi in galleria, o cenare insieme negli studi degli artisti sarebbe un buon inizio.