Nell’incontrare Lily Wong di persona, si percepisce immediatamente la forza del suo carattere e delle sue energie. L’artista è come si presenta: schietta, chiaramente consapevole di sé e della sua arte.
Prima del nostro incontro nel suo studio di Greenpoint, Wong mi aveva inviato un messaggio con istruzioni molto dettagliate su come raggiungerla. Era la fine di una lunga giornata a New York, ma le ho seguite passo dopo passo e non mi sono persa.
Il suo studio si trova in un edificio in cui non siamo mai stati prima per questa serie editoriale, ma anche pieno di artisti in questo quartiere un tempo solo industriale ma presto diventato hype.
Wong si rivela estremamente accogliente e pronta a una buona conversazione sul suo lavoro.
Ne parla in modo confidenziale, ma senza avere in mano alcuna narrazione costruita: rispondendo prontamente alle domande che le rivolgo, le sue risposte conducono immediatamente a quelle successive, in una conversazione spontanea che innesca pensieri che si vorrebbe sempre avere quando si visita un artista.
Come lei stessa ci racconta, Lily Wong ha iniziato la sua carriera artistica nella stampa, diplomandosi alla Rhode Island School of Design, seguita poi da un master all’Hunter College di New York.
L’inclinazione dell’artista verso la carta come supporto privilegiato è tuttora il fulcro del lavoro: come spiega l’artista, questo le permette di ricollegarsi genuinamente alla tradizione dei dipinti a inchiostro Sumi e al suo background asiatico.
Wong, infatti, attinge costantemente alla cultura cinese, pur rifiutando di perseguire in modo restrittivo qualsiasi ricerca o rivendicazione identitaria: non vuole che la sua pratica si ricolleghi solo a questa, sentendola molto limitante rispetto ai messaggi e alle istanze più ampie che vuole portare nel suo lavoro.
Invece, le sue scene appaiono spesso intrise di quella che lei stessa definisce “persistente nostalgia” per qualcosa con cui conviviamo in quanto ereditato dalle nostre famiglie, ma che può anche tradursi in una nostalgia per qualcosa di irraggiungibile, intangibile ed effimero per noi in quanto già fuori da questo tempo e da questo luogo.
In particolare, durante la nostra visita Wong ammette come negli ultimi tempi abbia tratto sempre più ispirazione dalle conoscenze tradizionali asiatiche, ma sempre avvicinandosi ad esse come qualcosa di ereditato, assorbito dalla sua famiglia e dalla comunità in cui ha vissuto, che vuole recuperare.
Da un punto di vista puramente visivo, è evidente come il suo lavoro sfugga a qualsiasi identificazione con un canone culturale e geografico specifico, assorbendo e impiegando liberamente elementi di estetica e filosofia sia occidentali che orientali: le sue figure possono ricordare alcuni personaggi di anime e manga, ma sono anche dense di riferimenti alla storia della pittura occidentale.
D’altra parte, il modo in cui Wong si avvicina allo spazio, concentrandosi sul peso arioso dell’atmosfera piuttosto che su una descrizione razionale degli elementi basata sulla prospettiva, è qualcosa di più vicino ai dipinti e alle stampe tradizionali cinesi e giapponesi.
Il background culturale asiatico, e in particolare cinese, emerge anche in termini di contenuti e di approccio filosofico ed esistenziale che le sue figure sembrano suggerire.
Durante la nostra visita, Wong ci confessa come ultimamente si sia interessata a esplorare diverse concezioni e percezioni del corpo e delle sue relazioni con i fattori esterni, immergendosi in alcuni approcci alternativi come quello che troviamo nelle pratiche di medicina tradizionale dell’Asia orientale, in particolare.
Infatti, le antiche tradizioni mediche dell’Asia orientale e della Cina si collocano in qualche modo all’opposto dei paradigmi occidentali: non necessariamente legate alla meccanica di causa-effetto e allo studio dei soli effetti e cause fisiche, queste pratiche mediche si basano su una concezione più olistica del corpo, che si concentra sulle connessioni energetiche tra gli individui e l’universo, vedendo l’organismo funzionante come un microcosmo legato a un ordine macroscopico più ampio.
Queste considerazioni appaiono molto più vicine alle nozioni ancestrali o indigene di sistema unitario tra individui/natura ma, allo stesso tempo, riecheggiano anche il concetto di “corpo consapevole” descritto da Nancy Scheper-Hughes che suggerisce la necessità di pratiche mediche più basate sull’antropologia, studiando il corpo al di là del dualismo cartesiano mente-materia, fisico e non fisico, e come qualcosa da osservare all’intersezione tra natura e cultura.
Alcune delle opere a cui Wong stava lavorando al momento della nostra visita esploravano già questi ambiti filosofici, antropologici e spirituali, incarnando questi concetti in scene immaginifiche fatte di atmosfere sature e proporzioni irrazionali.
Come lei stessa confessa, Wong trae ampia ispirazione dall’immaginario nei libri di medicina dell’Asia orientale, ispirandosi all’idea di come le percezioni corporee siano alla fine così intrecciate con le concezioni della personalità e del sé, e delle sue relazioni con il resto del mondo.
Tra le opere quasi completate, Entrance/Ear, in partenza per la fiera di Dallas, appare emblematica di come l’artista stia introducendo queste considerazioni nei suoi lavori: due figure, apparentemente la stessa persona ma raffigurate con colori e atteggiamenti diversi, fluttuano e interagiscono allo stesso tempo in uno spazio indefinibile, che sembra già situato tra il corpo e la sua percezione interna ed esterna.
Al centro, quello che sembra uno scambio di orecchie avviene all’interno di una forma simile a un orecchio: l’immagine criptica è in realtà ispirata al film Blue Velvet, quando il personaggio Kyle Mclachlan scopre questa specifica parte del corpo e la macchina da presa vi si immerge, e la trama inizia a svolgersi. Le orecchie, tuttavia, stanno diventando di recente un motivo ricorrente per l’artista, che vede in questa particolare parte del corpo una sorta di portale che collega un microcosmo del sé all’intero mondo che lo circonda.
Come ammette l’artista e rende particolarmente evidente questa opera in particolare, il suo lavoro sta diventando sempre più surreale, in quanto i suoi personaggi cercano di incarnare questa ricerca di un modo diverso di percepire e leggere l’umanità, e le sue relazioni con l’ambiente circostante.
Wong dichiara di essere affascinata da questa idea di un corpo come portale, qualcosa con cui negoziamo la nostra posizione nell’universo.
In quest’ottica, l’artista forza volutamente le proporzioni e i movimenti, privilegiando rispetto al realismo una specifica riconsiderazione della percezione e quindi della rappresentazione del corpo umano, concentrandosi in particolare sul potente intreccio delle sue energie fisiche e mentali.
Ciò diventa più chiaro in un’altra opera, Wind, per la quale Wong si ispira all’idea del lavoro di respirazione come modo per rafforzare la “Porta della Vita” nella Medicina Tradizionale Cinese, per fornire il “fuoco interno” del corpo nel riconnettersi con il ciclo universale delle energie.
A partire da queste considerazioni, nel rappresentare la figura umana Wong sfida deliberatamente i perimetri abituali delle percezioni e delle emozioni corporee, suggerendo un’interconnessione più fluida, posizionando le sue scene in questo spazio liminale tra il mondo interno ed esterno.
Anche per questo motivo, possiamo capire perché i suoi personaggi agiscano e si esibiscano per lo più in atmosfere e paesaggi ultraterreni, suggeriti dall’uso altamente fantasioso dei colori dell’artista, già svincolati dalla realtà.
Wong confessa come il potenziale del colore è un’altra scoperta recente per lei: provenendo dalla stampa, prima l’artista abitava un universo visivo puramente bianco/nero e grafico.
Da quando i colori sono entrati nelle sue opere, ha iniziato a esplorare liberamente l’intensa forza metaforica ed emotiva che possono avere, e le sottigliezze narrative che possono creare: le tinte incandescenti e vivaci possono vengono usate dall’artista per incarnare energie, permettendo alla sua scena di esplorare e suggerire connessioni emotive, psicologiche ed energetiche alternative tra le figure e l’ambiente circostante.
A volte l’uso dei colori tende a diventare ancora più drammatico, alimentato da uno specifico approccio cinematografico alle scene che ha iniziato a introdurre, che isola specifici movimenti ed espressioni in cui queste energie si manifestano attraverso il corpo.
Inoltre, le figure di Wong appaiono spesso in uno stato di transizione, coinvolte in una metamorfosi continua che suggerisce le possibilità di un “sé in movimento”, aperto a una costante trasformazione ed evoluzione, in risposta alle circostanze.
In definitiva, con le sue narrazioni ricche di sfumature Lily Wong riesce a visualizzare un’idea più fluida di persona, suggerendo una riflessione pertinente sulla natura sfaccettata e non binaria della personalità e del senso del mondo circostante.
In questo senso, le opere di Wong incoraggiano anche una nozione più aperta della realtà individuale e universale, che ci costringe ad accettare entrambe come un flusso di percezioni e realizzazioni in continua evoluzione, che parte dall’eredità culturale e si espande nel modo apertamente infinito di percepire e sentire il mondo e l’ambiente circostante.
Questo specifico spazio mentale ed esistenziale di “apertura al mondo”, infatti, è quello che permette di superare questo desiderio di qualcosa di lontano e perduto, abbracciando la necessità di essere semplicemente aperti al mondo e alla sua diversità. Perché, come disse una volta il filosofo José Ortega y Gasset, “io sono io e la mia circostanza; e, se non la salvo, non salvo me stesso”.
In questo senso, anche l’esistenza non è l’io individuale ma sia l’io che le circostanze che accadono intorno e si traducono all’interno, che contribuiscono a plasmare il senso di sé e, contemporaneamente, del mondo.