Vorrei iniziare con “Carton II”, che è una delle tue opere che preferisco. Credo che faccia parte di quelli che tu chiami “oggetti di servizio”, identificandoli come strutture di supporto per altri materiali. Puoi dirmi qualcosa di più su questo tuo progetto?
Il mio lavoro parte dalla considerazione del mondo materiale: i nostri strumenti, i vestiti, i giocattoli, ecc. Viviamo circondati da una grande varietà di oggetti, cose nuove che raccogliamo e cose vecchie che gettiamo. A causa dell’eccessiva varietà dei prodotti esistenti, molti di questi vengono ignorati, restano inutilizzati e in alcuni casi persino mai richiesti. Il nostro mondo è apparentemente nato per soddisfare i nostri bisogni e desideri. Tuttavia, non appena qualcosa ci si presenta davanti, andiamo oltre e iniziamo a desiderare già quella successiva. Tutto ciò è molto interessante per la mia ricerca, trattandosi di mancate corrispondenze tra il mondo fisico e la nostra esistenza metafisica. Infatti, l’idea che la materia modifichi in modo sostanziale la nostra psicologia è un malinteso che porta a una sorta di ciclo continuo di “guadagno e perdita” che equivale a una ricerca senza fine.
Anche se non desideriamo più alcuni oggetti, non cessano certo di esistere, e nel momento in cui li trovo, o nei mercati di seconda mano o tra i rifiuti, la loro mancanza di contesto le lascia libere di essere riconsiderate. A volte, per questi oggetti sviluppo una nuova narrazione, immaginando la loro relazione all’interno di un’inedita struttura sociale con altri prodotti, a loro estranei.
In questo modo procedo a organizzarli in situazioni soggettive dando vita a nuove emozioni come la dipendenza, la paura, la disperazione, l’amore, il potere ecc. Ad esempio, alcuni oggetti, come i vassoi e i contenitori, li metto al servizio del loro contenuto, approfittando del loro scopo originale.
In che modo l’arte può facilitare il cambiamento del valore degli oggetti che incontriamo e che dimentichiamo durante la nostra vita?
Non mi aspetto di cambiare il modo in cui la nostra cultura considera gli oggetti prodotti, lavoro in questo modo solo perché mi dà la possibilità di agire liberamente. Inoltre, in questo modo non devo rinunciare al mio “materialismo”, posso passare più tempo con gli oggetti, libera dagli interessi strettamente personali e riuscire a comprendere, in maniera definitiva, la fenomenologia della mia esistenza.
Ricordo di aver visitato nel 2015 la sua mostra “Six Ways to Sunday” presso Peep-Hole Art Center a Milano. Sono rimasto ipnotizzato dalla tua serie di coperte installate insieme ad altre sculture che raccoglievano campioni di tessuto, vestiti ed etichette. Era avvincente il modo in cui questi elementi così familiari riflettevano in modo inaspettato storie e identità non solo personali ma anche collettive. Qual è la tua idea di intimità?
Ogni oggetto ha una sua storia: l’origine del suo materiale, la sua produzione, la sua rilevanza sul mercato, la sua provenienza, ecc. Queste sono le storie convenzionali di un oggetto che un museo deve ricercare e conservare. Apprezzo i musei, ma non voglio lavorare in questo stesso modo anche nello studio, perché l’approccio museologico ci conduce più lontano dalla realtà dell’oggetto. Quando inserisco etichette e segni, che sono identificativi di un prodotto, lo faccio in eccesso, in modo che nessuna affermazione possa essere considerata vera. Probabilmente è proprio la mancanza di logica di un gesto surreale come questo che mi avvicina al materiale stesso, spingendomi a guardare oltre l’oggetto e mi porta a conoscere il proprietario o colui che lo ha prodotto.
Possiamo dire che l’artista è una sorta di archeologo? Che tipo di storie cerca di rivelare?
Posso parlare solo per me, e di certo non mi posso considerare un’archeologa, se per tale si intende lo studio della storia umana attraverso l’analisi dei manufatti. Non cerco storie umane, almeno non le storie convenzionali. Cerco storie di genialità materiale, per esempio: il filo che si presta a diventare un foglio intrecciato, la forma cilindrica di una sigaretta che persiste anche quando viene bruciata fino a diventare cenere, le borse e le scatole che trattengono e valorizzano il loro contenuto, i bicchieri di carta che diventano più resistenti se si arrotola il loro bordo, o come alcuni materiali riescano a sfidare la gravità mentre altri ne rivelano solo l’effetto.
Stai per inaugurare una nuova mostra alla Marcelle Alix di Parigi il prossimo febbraio. Di che cosa si tratta?
Da qualche anno sto lavorando con i giocattoli, soprattutto con i peluche. Mi sorprende la loro ubiquità e la facilità con cui vengono utilizzati come surrogati emotivi dei sentimenti umani. Nei lavori precedenti li ho inseriti in varie situazioni. Sono stati attori attivi che mostravano cura e preoccupazione per altri oggetti, oppure apparivano come i danni collaterali di una pulsione sregolata. Nei due nuovi lavori alla Marcelle Alix, i peluche sono vittime di un incidente che coinvolge cibo e contenitori da asporto. Sembra una situazione improbabile, ma potrebbe anche essere accaduto veramente! In un’altra opera, invece, il peluche è inserito in un’installazione caotica, creata con imballaggi di cartone.
Ci sono anche nuove opere, una sorta di collage di abiti, che offrono una vastità di significati che fanno crollare la loro capacità di rivelare l’identità di una persona. In questo modo, si può vedere la materialità del tessuto stropicciato, o il senso di un’imbottitura sulla spalla o il potere del tessuto trasparente di conferire fascino a chi lo indossa. Ogni collage è stato realizzato rapidamente, attingendo a un’enorme quantità di vestiti inutilizzati. Mi ha sorpreso la bellezza dei tessuti quando li si libera dalle logiche della moda o dello stile.
Liz, credo che tu abbia parlato del concetto di “libertà” un paio di volte durante la nostra conversazione. Quanto è importante per te? Ti senti libera?
È possibile che abbia iniziato a lavorare in studio per sviluppare un senso di autonomia e di potere personale. Ma questo è successo molti anni fa, in realtà diversi decenni fa. A questo punto, il lavoro di inventare me stessa, di pensare alla mia identità o al mio status, al fatto di essere libera o liberata, è ormai alle spalle. Se oggi penso alla libertà, o più precisamente alla “non-libertà”, non è situata nella sfera personale ma in quella sociale, come una diretta conseguenza della complessa rete da cui emergiamo. Uso la mia idea di questo concetto per immaginare diverse relazioni tra le parti che compongono una scultura. Posso usare le qualità fisiche delle cose, come la gravità, la trasparenza o la flessibilità, paragonandole alle forze sociali o alle condizioni psicologiche. In questo modo sono capace di sviluppare la mia narrazione a un certo livello, ma che non è libera di continuare senza tener conto dell’idea di corpo e di materia in cui si trova.
Liz Magor
Installation view: Six Ways to Sunday #06
Peep-Hole, Milan, 2015
Photo: Laura Fantacuzzi – Maxime Galati-Fourcade
Courtesy of Catriona Jeffries, Vancouver
Liz Magor
Maple Leaf
2011
Wool, dye, fabric, metal, plastic, thread
147 x 62 x 10 cm
Courtesy of Catriona Jeffries, Vancouver
Photo: Toni Hafkenscheid
Liz Magor
Carton II
2006
Polymerized gypsum, tobacco, gum, matches, lighters
29 x 53 x 48 cm
Photo: Richard-Max Tremblay
Courtesy of Catriona Jeffries, Vancouver
Collection of Musée d'art contemporain de Montréal
Liz Magor
Coiffed
2020
Painted plywood, fabric skirting, silicone rubber, artificial hair, acrylic throw, woolen blankets, silver fabric, linen, jewelry boxes, costume jewelry, packaging materials
69 x 335 x 244 cm
Photo: Rachel Topham Photography
Courtesy of Catriona Jeffries, Vancouver
Liz Magor
Delivery (brown)
2018
Silicone rubber, textiles, twine
485 x 107 x 107 cm
Photo: Rachel Topham Photography
Courtesy of Catriona Jeffries, Vancouver
Liz Magor
Delivery (brown) (detail)
2018
Silicone rubber, textiles, twine
485 x 107 x 107 cm
Photo: Rachel Topham Photography
Courtesy of Catriona Jeffries, Vancouver
Liz Magor
Installation view: Six Ways to Sunday #06
Peep-Hole, Milan, 2015
Photo: Laura Fantacuzzi – Maxime Galati-Fourcade
Courtesy of Catriona Jeffries, Vancouver
Liz Magor
Leather Palm
2015-2019
Polymerized gypsum, copper, cigarette
8 x 25 x 11 cm
Photo: Rachel Topham Photography
Courtesy of Catriona Jeffries, Vancouver
Photo: Kelly Lycan
Liz Magor
Installation view: Six Ways to Sunday #06
Peep-Hole, Milan, 2015
Photo: Laura Fantacuzzi – Maxime Galati-Fourcade
Courtesy of Catriona Jeffries, Vancouver
Liz Magor
Maple Leaf
2011
Wool, dye, fabric, metal, plastic, thread
147 x 62 x 10 cm
Courtesy of Catriona Jeffries, Vancouver
Photo: Toni Hafkenscheid
Liz Magor
Carton II
2006
Polymerized gypsum, tobacco, gum, matches, lighters
29 x 53 x 48 cm
Photo: Richard-Max Tremblay
Courtesy of Catriona Jeffries, Vancouver
Collection of Musée d'art contemporain de Montréal
Liz Magor
Coiffed
2020
Painted plywood, fabric skirting, silicone rubber, artificial hair, acrylic throw, woolen blankets, silver fabric, linen, jewelry boxes, costume jewelry, packaging materials
69 x 335 x 244 cm
Photo: Rachel Topham Photography
Courtesy of Catriona Jeffries, Vancouver
Liz Magor
Delivery (brown)
2018
Silicone rubber, textiles, twine
485 x 107 x 107 cm
Photo: Rachel Topham Photography
Courtesy of Catriona Jeffries, Vancouver
Liz Magor
Delivery (brown) (detail)
2018
Silicone rubber, textiles, twine
485 x 107 x 107 cm
Photo: Rachel Topham Photography
Courtesy of Catriona Jeffries, Vancouver
Liz Magor
Installation view: Six Ways to Sunday #06
Peep-Hole, Milan, 2015
Photo: Laura Fantacuzzi – Maxime Galati-Fourcade
Courtesy of Catriona Jeffries, Vancouver
Liz Magor
Leather Palm
2015-2019
Polymerized gypsum, copper, cigarette
8 x 25 x 11 cm
Photo: Rachel Topham Photography
Courtesy of Catriona Jeffries, Vancouver
Photo: Kelly Lycan