Hai studiato fotografia alla Central Saint Martins di Londra e attualmente sei dottoranda in arti performative e nuovi media presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico. Il tuo percorso formativo, così come la tua pratica artistica, riflette un’attitudine transdisciplinare, difatti integri teatro e performance, arti visive e scrittura. Che rapporto intrattengono tra di loro queste discipline nei tuoi progetti? Come si influenzano, o meglio, cosa portano l’una nell’altra?
L’esperienza del reale, soprattutto del contemporaneo, è un’esperienza complessa e per restituirla non si può non aver a che fare con mezzi complessi, transmediali e multimodali.
Il mio percorso è frastagliato perché non ho mai progettato di fare l’artista, non l’ho cercato fino a quando non si è presentato come unica strada percorribile. La mia prima laurea era in Scienze Politiche. Ho iniziato a sistemare archivi fotografici da bambina riorganizzando le narrative degli album di famiglia, poi a vent’anni mi sono iscritta a una scuola di fotografia perché volevo imparare lo strumento fotografico, volevo impararlo bene. Ho sempre scattato principalmente ritratti. Dalla fotografia al teatro ci sono arrivata perché desideravo che ciò che stava nell’immagine fotografica si muovesse e poi che fosse tridimensionale. Poi, a un certo punto, ho iniziato ad avvertire la lente fotografica come un elemento distanziatore della mia esperienza del mondo. Volevo essere immersiva e immersa. Da qui è venuta la performance, il teatro e la regia.
Sebbene sia la fotografia che il teatro abbiano a che fare con il guardare e l’essere guardati, trovo l’esperienza fotografica – quella di scattare – come un atto di meditazione solitaria, mentre l’esperienza teatrale è sempre un rito con l’altro.
Sicuramente dalla fotografia porto con me un’estetica visiva che applico alle scene che sviluppo nel mio lavoro performativo. Trovo la luce molto importante al fine di definire un ambiente e trovo che l’ambiente spesso crei storie.
Tuttavia sto scardinando anche questa posizione di estetica visiva della scena su palco, a favore invece di un’esplorazione più inscritta nel corpo, invischiata con quello che non si vede, invisibile, sottopelle.
Le tue opere parlano di temi eterogenei che spaziano dalla mitologia alla quotidianità, dagli archetipi umani al rapporto con la natura, da scenari futuri a quelli archeologici. Alla fine, però, si condensa tutto in azioni traslate attraverso differenti medium. Come tu stessa affermi, ti occupi più dello “studio dell’azione e della sua trasfigurazione estetica in relazione alla durata: l’azione che si ripete, che ritualizza e che si fa segno”. Mi dici di più su come questo si realizza nei tuoi lavori?
È una frase che dissi cinque anni fa, nel 2020. In quel momento ero molto legata all’esplorazione della durational performance. Ciò che mi affascinava di questo tipo di performance era la qualità sacrale del tempo che riesce a generare la ripetizione potenzialmente infinita di un’azione, anche minima; si potrebbe dire l’aspetto liturgico dell’azione. Mi ha sempre affascinata l’infinita gamma drammaturgica che un performer attraversa in una singola azione ripetuta più e più volte, le microvariazioni che mantengono viva e curiosa quell’azione. Ci si chiede: come posso meravigliarmi nel compiere la medesima azione per un numero infinito di volte? Come posso non dare per scontato – e perciò scoprire ogni volta – la ripetizione di un’azione che conosco? Questo tipo di ricerca performativa, questa dilatazione del tempo, è qualcosa che ho cercato e continuo a cercare su me stessa e con le interpreti con cui collaboro, è un processo ora contenuto spesso nei miei lavori teatrali di regia, anche se poi quella scena dura solo cinque minuti (che per una scena in teatro possono appunto risultare tantissimi).
Sei attiva anche come promotrice di residenze artistiche con il progetto In-ruins dove si incontrano arte contemporanea e archeologia. Mi parli di questo progetto e di come si inserisce in un contesto come quello calabrese?
Ho personalmente ideato e dato inizio al progetto nel 2018 per il sentimento spontaneo di colmare un vuoto semiotico nella mia terra natale, la Calabria, un territorio profondamente segnato da un passato coloniale e un presente periferico. Sebbene in Calabria negli ultimi anni stiano fiorendo molte iniziative artistiche, restiamo sempre troppo pochi. Se il mondo dell’arte ha oramai completamente esotizzato il tema del Mediterraneo, attraverso In-ruins sento di poter dire che mi sono occupata di portare pratiche e sensibilità di artist* giovani e semi giovani assolutamente di calibro internazionale nel centro geografico del Mediterraneo, in una delle regioni più povere d’Europa, spesso in luoghi dove quasi nessun* potrebbe desiderare di curare mostre o esporre, perchè a vederle non c’è nessun critic*, nessuna fiera, nessuna art week, ma solo comunità di abitanti in via di sparizione. L’arte contemporanea permette di leggere l’archeologia e il suo monumentale patrimonio in prospettiva espansa: decoloniale rispetto alle narrazioni culturali dominanti, trans-temporale rispetto alla nozione di storia, mobile rispetto alla nozione di tutela e conservazione. Grazie a tali angolature, l’arte si configura come prisma cristallino attraverso cui guardare al patrimonio archeologico materiale e immateriale alla luce del presente.
Per tutto questo In-ruins mi sta a cuore e lo trovo un progetto prezioso. Il processo artistico si inserisce, infatti, nei ciottoli delle rovine mancanti e in quel interstizio semina mondi.
Dal 2021 In-ruins ha un team fisso composto oltre che da me anche da Nicola Guastamacchia e Nicola Nitido. L’attività cardine del progetto sono le residenze artistiche, che ho co-diretto fino allo scorso anno, e che, a partire da quest’anno, sono state realizzate, oltre che in Calabria, anche in Basilicata.
Su cosa stai lavorando attualmente?
Sto portando avanti due progettualità: una è quella di regia inerente il dottorato di ricerca presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico, l’altra è la messa a punto di un’opera installativa resa possibile grazie alla collaborazione con i numerosi enti partner – tra cui BJCEM, Museo Egizio, ECCOM e Museo delle Civiltà per l’Italia – all’interno di Contested Desires, progetto transnazionale dedicato al coinvolgimento di artisti per riflettere sull’impatto coloniale nel patrimonio culturale europeo. Sono stata selezionata come artista per l’Italia e a breve partirò per Larnaca, a Cipro, e poi ad Amsterdam presso Kunstfort per la prima fase di realizzazione dell’opera che andrà in mostra il prossimo luglio.
Parcae, 2022, site-specific performance, crediti fotografici Ersilia Tarullo
After Party, 2024, stage performance, photo courtesy Primavera dei Teatri Festival, crediti fotografici Angelo Maggio
After Party, 2023, photo courtesy La Biennale di Venezia, Giugno 2023
Dragunare (Parcae), 2021, digital photography, dimensione variabile, edizioni multiple
After Party, 2024, site specific performance, Microonde Fest, Villa Rey, Bastione, crediti fotografici Stefano Mattea