Martina Bacigalupo e Sharon Sliwinski

Dalla tua prima collaborazione con l’ONG Human Rights Watch, Martina, il tuo lavoro si è svolto principalmente nel continente africano. Cosa ti ha portato lì?

MB: Nel 2007 mi è stato offerto un lavoro come fotografa per la missione di pace delle Nazioni Unite in Burundi: doveva durare solo pochi mesi, ma alla fine sono rimasta lì per circa dieci anni. Come fotografa bianca, mi sono resa conto rapidamente del ruolo ambiguo che la fotografia svolgeva nel continente, perpetuando la narrativa unilaterale secondo cui l’Africa è un luogo di miseria e violenza e ha bisogno dell’Occidente per salvarsi. Ho quindi iniziato a mettere in discussione il linguaggio stesso della mia espressione, il fotogiornalismo, che è fiorito a fianco dell’imperialismo occidentale e lo ha servito – direttamente o indirettamente – per quasi due secoli. Oggi il colonialismo, come tale, non esiste più, ma i rapporti politici sottostanti tra Paesi dominanti e dipendenti sono quasi invariati. Questo è ciò che guida la mia ricerca visiva.

 

Analizzando i tuoi due progetti, Gulu Real Art Studio (2014) e il video The Reverie Project (2018), creato con Sharon Sliwinski, si nota una certa somiglianza. È davvero così? Da una parte troviamo fotografie con volti ritagliati, foto scattate per documenti d’identità, e dall’altra il silenzio delle storie dei migranti davanti alla telecamera.

MB: Penso che il silenzio sia effettivamente il denominatore comune di queste due serie. Messi a tacere da un sistema ingiusto, questi gruppi di persone sviluppano modi di espressione alternativi, spesso impercettibili. Tina Campt descrive i ritratti di Gulu in questo modo nel suo libro Listening to Images: “un ronzio silenzioso pieno di riverbero e vibrato, non sempre percepibile all’orecchio umano” (…) questi ritratti enunciano rivendicazioni quotidiane di sopravvivenza, resilienza e possibilità nel dopoviolenza.”

Il silenzio come terreno fertile per la nascita della resilienza è anche una delle idee fondanti di The Reverie Project. Ci siamo ispirati al lavoro del neurologo francese Boris Cyrulnik, il quale suggerisce che la costruzione di nuove immagini interne sia uno step nel processo di recupero dalle esperienze dolorose. È necessario trovare anche un linguaggio e una comunità disposta ad ascoltare. Abbiamo cercato di creare uno spazio per questo processo di guarigione. In entrambi i progetti, il silenzio è una proposta per affinare le nostre capacità uditive, una sorta di richiesta di trovare nuovi modi per riconoscere le impercettibili rivendicazioni di sopravvivenza di persone che non hanno diritto di parola.

Com’è stato collaborare con Sharon a questo progetto?

MB: Sia io che Sharon abbiamo un background nei diritti umani. Quando ci siamo incontrate, nel 2017, stavamo indagando la politica della rappresentazione nella fotografia, ognuna dal proprio punto di vista: Sharon come studiosa e io come fotografa. Quando Sharon è stata invitata a realizzare un progetto per il Festival del Cinema per i Diritti Umani di Ginevra, mi ha chiamata per vedere se fossi interessata a collaborare con lei.

In quel periodo, la “crisi” migratoria nel Mediterraneo era un tema onnipresente nelle notizie e io avevo lavorato diverse volte sulla nave di soccorso MSF “Aquarius” che operava in mare. Il Festival ci mise in contatto con un centro per migranti a Ginevra chiamato “La Roseraie.” Dopo aver trascorso del tempo con questa comunità, decidemmo di sviluppare un progetto con loro. Con il loro aiuto, abbiamo installato una cabina fotografica nel seminterrato del centro e invitato le persone a passare un po’ di tempo da sole lì dentro. Non abbiamo dato istruzioni esplicite. Le persone decidevano volontariamente di entrare nella cabina e noi accendevamo semplicemente la telecamera, lasciandole sole per cinque minuti. Erano libere di fare ciò che volevano: parlare, stare in silenzio, sedersi, camminare o persino uscire.

Dopo cinque minuti, tornavamo e chiedevamo cosa fosse successo mentre erano nella cabina. Non sapevamo davvero cosa avremmo ottenuto e avevamo persino considerato la possibilità che non succedesse nulla. Poi è entrato il primo partecipante. Era un signore siriano sulla sessantina. Quando siamo tornate dopo i cinque minuti, ci ha detto che aveva pianto solo tre volte nella sua vita: la prima quando è morta sua madre, la seconda quando la polizia turca ha picchiato suo figlio e la terza quel giorno, nella cabina. Io e Sharon ci siamo guardate e abbiamo pensato che questo non fosse davvero l’effetto che volevamo ottenere, quindi eravamo pronte a interrompere il progetto lì. Ma poi il signore ci ha ringraziato per l’esperienza. Incoraggiate dal suo feedback, abbiamo proseguito.

Alcuni ci hanno detto che quei cinque minuti erano stati il primo momento di solitudine in anni. Molti ricordi sono riaffiorati nella cabina. Un partecipante ci ha detto che chiudendo gli occhi ha visto improvvisamente il villaggio della sua infanzia, che aveva dimenticato. Trentacinque persone sono entrate nella cabina per quel progetto. Tra loro migranti, volontari, il direttore del centro e anche noi stesse. Volevamo superare le dinamiche di potere tra fotografo e fotografato. Abbiamo cercato di eliminare la distinzione tra soggetti e oggetti. Ad essere onesta, Sharon non voleva entrare nella cabina quella volta. Sto aspettando il secondo capitolo per farla entrare!

SS: È vero, ero ansiosa di entrare nella cabina. Ansiosa di dove sarebbero andati i miei pensieri. Collaborare con Martina è emozionante per me perché mi spinge a esplorare i luoghi scomodi, che sono ovviamente quelli in cui si verifica la maggiore crescita – quando si va oltre ciò che è comodo.

 

Perché il vostro progetto fa riferimento alla frase “un luogo sicuro per almeno cinque minuti”?

MB: La cabina fotografica che abbiamo creato era pensata per essere “sicura” nel senso che non c’erano domande a cui rispondere, nessuna performance richiesta, nessuna storia da raccontare. Era semplicemente un luogo da usare per una ricarica intima. Se le persone volevano uscire, se non volevano parlare, se non volevano mostrare i loro volti, potevano farlo. Era tutto concesso.

Per quanto riguarda la durata, abbiamo avuto una lunga discussione sul tempo che ogni ritratto sarebbe dovuto durare. Sharon pensava che cinque minuti fossero un’imposizione troppo grande per le persone. Sebbene comprendessi la sua preoccupazione, credevo che il tempo fosse un elemento essenziale del progetto. Infatti, dopo uno o due minuti la tensione o la consapevolezza della telecamera svaniscono e si crea una sensazione caratterizzata dalla noia, disagio e sogno ad occhi aperti. È come un flusso di pensieri inconscio, condiviso.

SS: Una delle prime cose che una persona perde quando diventa un migrante è la propria privacy. E la sfera privata è ovviamente il luogo in cui la maggior parte di noi si sente più al sicuro. Parte di ciò che stavamo cercando di fare era fornire un luogo sicuro in cui le persone potessero stare sole con i propri pensieri per qualche momento – una sorta di «stanza tutta per sé.» Ovviamente c’era una telecamera nella cabina, quindi non erano completamente sole, ma quasi tutte le persone che vi sono entrate hanno vissuto un momento in cui sono riuscite a perdersi nei loro pensieri. Stavamo cercando di creare uno spazio che privilegiasse questo stato di sogno ad occhi aperti – volevamo creare un luogo in cui i pensieri potessero vagare liberamente – e in sicurezza.

Cosa vi ha lasciato questa esperienza? Cosa pensi dell’atteggiamento generale che il mondo occidentale ha nei confronti dei migranti?

SS: Il pubblico globale sembra non perdere mai l’appetito per le immagini di sofferenza. I media internazionali si nutrono di immagini di persone in stati di estrema difficoltà. L’idea che queste immagini possano in qualche modo stimolare il rispetto dei diritti umani è una fervida fantasia. Ma in realtà, la circolazione di queste immagini serve solo le aziende di comunicazione. Questo non vuol dire che la documentazione delle atrocità non sia importante—lo è—ma abbiamo abbastanza prove ora per capire che i diritti umani non vengono garantiti nel mondo. Anzi, può succedere che la circolazione di queste immagini finisca per violare ulteriormente il nostro senso di dignità umana.

Come ha chiarito Hannah Arendt, la condizione del migrante è in realtà il dilemma fondamentale della condizione umana, il tema che riguarda tutti noi: trovare una casa nel mondo. Il nostro senso di appartenenza – il nostro stesso senso di realtà, di vitalità esistenziale – è legato alla nostra capacità di dare voce alle nostre esperienze, di dar loro una forma adatta alla condivisione con gli altri. In quanto esseri umani abbiamo bisogno di essere visti e ascoltati; abbiamo bisogno che la nostra esistenza sia confermata dagli altri.

Il Reverie Project è il nostro tentativo di riflettere su questa tensione: la necessità di un solido teatro pubblico in cui le nostre esperienze possano essere rappresentate e confermate e, allo stesso tempo, il bisogno di proteggere il nostro “diritto all’opacità”, per prendere in prestito la bellissima frase di Édouard Glissant. Credo che questo sia uno dei nostri compiti politici più urgenti oggi: creare una sfera politica condivisa in cui le esperienze delle persone possano essere testimoniate e riconosciute, in cui possiamo confermare la nostra reciproca esistenza in un modo che salvaguardi la nostra dignità.

PHOTO CREDITS

Gulu Real Art Studio (2014)

The Reverie Project (2018)

Martina Bacigalupo

Dopo aver studiato filosofia e letteratura a Genova, Martina Bacigalupo si è trasferita in Burundi, in Africa orientale, dove ha lavorato per dieci anni come fotografa freelance, collaborando con riviste, fondazioni e organizzazioni internazionali.

Il suo lavoro, che indaga le dinamiche visive tra Africa e Occidente, fa parte di diverse collezioni, tra cui la Collezione Artur Walther in Germania, la Collezione Donata Pizzi in Italia e il Museum of Fine Arts di Houston, USA. Nel 2013 ha pubblicato il progetto “Gulu Real Art Studio” con Steidl. Negli ultimi anni Martina ha sviluppato con la ricercatrice canadese Sharon Sliwinski “The Reverie project”, un lavoro continuo che mette in discussione la rappresentazione dei migranti.

Martina fa parte dell'Agence VU di Parigi e conduce workshop sulla fotografia documentaria in Francia e all'estero. Membro di programmi di mentorship e membro della giuria di concorsi fotografici internazionali, tra cui il Premio Oskar Barnack 2022 e l'edizione 2021 del World Press Photo, dal 2018 è direttore della fotografia per le riviste francesi XXI e 6Mois.

Sharon Sliwinski

Il lavoro di Sharon Sliwinski collega i campi della cultura visiva, della teoria politica e della mente. Ha scritto molto su fotografia, diritti umani e immaginario sociale, spesso utilizzando un approccio psicosociale. Collabora inoltre con un ampio gruppo di artisti, studiosi e professionisti su un progetto chiamato The Museum of Dreams, dove la stessa Sliwinski ha creato uno spazio per esplorare la vita onirica attraverso un modo cruciale, sebbene spesso trascurato, di vedere.

È professore associato presso la Facoltà di Information and Media Studies e presso il Centre for the Study of Theory and Criticism alla Western University in Canada.

Tra i suoi progetti attuali figura "An Alphabet for Dreamers: How to See with Your Eyes Closed" (in fase di pubblicazione con MIT Press). Scritto per un pubblico generale, questo libro offre una serie di lezioni su come i sogni possano offrire un altro modo di vedere il mondo. Ognuno dei brevi ventisei capitoli fa rivivere un sogno della storia, del passato recente e remoto, per mostrare come queste esperienze possano rappresentare, guidare e trasfigurare i nostri più profondi conflitti sociali.

Sliwinski conduce anche una serie podcast intitolata "The Guardians of Sleep". La prima stagione, nata da una collaborazione con il Museum of London (Regno Unito), esplora come la pandemia di Covid-19 abbia influenzato la vita onirica degli abitanti della capitale britannica. La seconda stagione, attualmente in produzione, esplora sia la storia coloniale della raccolta dei sogni sia i metodi indigeni contemporanei per esplorare la conoscenza offerta da queste esperienze. Sliwinski sta inoltre lavorando a The Danzig Album, un libro su fotografia, trauma e memoria transgenerazionale.

Martina Bacigalupo

Dopo aver studiato filosofia e letteratura a Genova, Martina Bacigalupo si è trasferita in Burundi, in Africa orientale, dove ha lavorato per dieci anni come fotografa freelance, collaborando con riviste, fondazioni e organizzazioni internazionali.

Il suo lavoro, che indaga le dinamiche visive tra Africa e Occidente, fa parte di diverse collezioni, tra cui la Collezione Artur Walther in Germania, la Collezione Donata Pizzi in Italia e il Museum of Fine Arts di Houston, USA. Nel 2013 ha pubblicato il progetto “Gulu Real Art Studio” con Steidl. Negli ultimi anni Martina ha sviluppato con la ricercatrice canadese Sharon Sliwinski “The Reverie project”, un lavoro continuo che mette in discussione la rappresentazione dei migranti.

Martina fa parte dell'Agence VU di Parigi e conduce workshop sulla fotografia documentaria in Francia e all'estero. Membro di programmi di mentorship e membro della giuria di concorsi fotografici internazionali, tra cui il Premio Oskar Barnack 2022 e l'edizione 2021 del World Press Photo, dal 2018 è direttore della fotografia per le riviste francesi XXI e 6Mois.

Sharon Sliwinski

Il lavoro di Sharon Sliwinski collega i campi della cultura visiva, della teoria politica e della mente. Ha scritto molto su fotografia, diritti umani e immaginario sociale, spesso utilizzando un approccio psicosociale. Collabora inoltre con un ampio gruppo di artisti, studiosi e professionisti su un progetto chiamato The Museum of Dreams, dove la stessa Sliwinski ha creato uno spazio per esplorare la vita onirica attraverso un modo cruciale, sebbene spesso trascurato, di vedere.

È professore associato presso la Facoltà di Information and Media Studies e presso il Centre for the Study of Theory and Criticism alla Western University in Canada.

Tra i suoi progetti attuali figura "An Alphabet for Dreamers: How to See with Your Eyes Closed" (in fase di pubblicazione con MIT Press). Scritto per un pubblico generale, questo libro offre una serie di lezioni su come i sogni possano offrire un altro modo di vedere il mondo. Ognuno dei brevi ventisei capitoli fa rivivere un sogno della storia, del passato recente e remoto, per mostrare come queste esperienze possano rappresentare, guidare e trasfigurare i nostri più profondi conflitti sociali.

Sliwinski conduce anche una serie podcast intitolata "The Guardians of Sleep". La prima stagione, nata da una collaborazione con il Museum of London (Regno Unito), esplora come la pandemia di Covid-19 abbia influenzato la vita onirica degli abitanti della capitale britannica. La seconda stagione, attualmente in produzione, esplora sia la storia coloniale della raccolta dei sogni sia i metodi indigeni contemporanei per esplorare la conoscenza offerta da queste esperienze. Sliwinski sta inoltre lavorando a The Danzig Album, un libro su fotografia, trauma e memoria transgenerazionale.

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