Sei un fotografo documentarista freelance, ma da dove e quando è nata questa tua passione? Hai degli esempi a cui ti ispiri?
Ho iniziato ad appassionarmi alla fotografia relativamente tardi: a 27 anni, nel 2017. I miei primi lavori erano fotografie di viaggio: traevo ispirazione da alcuni fotoreporter internazionali, come il brasiliano Sebastião Salgado, per testimoniare l’incredibile varietà di costumi e tradizioni in diverse aree del mondo.
Il mio modo di relazionarmi alla fotografia e la percezione di me stesso come fotografo è cambiata repentinamente dopo il mio viaggio in Nepal, a Lumbini, il 2 aprile 2017. In quell’occasione ho scattato una foto che ritraeva donne e bambini mentre lavoravano dentro ad una fabbrica di mattoni in condizioni sanitarie e di sicurezza pessime. Quella foto è arrivata in finale al concorso fotografico di National Geographic del 2018. Non me lo aspettavo. Da quel momento ho iniziato a pensare che la fotografia documentaria potesse davvero essere la mia strada, diventare il mio lavoro. Ho continuato così a viaggiare, a candidare le fotografie che scattavo a concorsi, bandi, open call e a proporle ai giornali e magazine di settore.
Nel 2020, durante i periodi di lockdown del Covid, ho attraversato un periodo di crisi creativa, dovuta al fatto che i miei lavori si sviluppavano attraverso scatti singoli e senza entrare in contatto diretto con le persone che ritraevo. Sentivo, invece, il bisogno di narrare storie attraverso un racconto per immagini che fosse evocativo, coerente, fluido. Trascorrere del tempo con le persone locali, ascoltarle e osservarle nelle loro attività quotidiane e nelle loro relazioni interpersonali, stava diventando per me un fattore imprescindibile. Penso che solo in questo modo si possa realmente comprendere e poi sviluppare il progetto che si ha in mente. Concluso il periodo di restrizioni della pandemia, ho iniziato così a seguire diversi corsi, workshop e masterclass di fotogiornalismo e reportage.
I fotografi Federico Borella e Antonio Faccilongo sono stati, e sono tutt’ora, due punti di riferimento e ispirazione per me. Grazie ai loro insegnamenti sono cresciuto professionalmente e quello che mi hanno trasmesso continua a influenzare positivamente il mio lavoro.
Il tuo modo di fotografare ti permette di entrare in contatto con persone e realtà diverse. Come riesci a trovare una sintesi tra quella che è la tua visione artistica e la fedeltà delle storie personali che ti vengono raccontate?
Innanzitutto, penso sia importante rappresentare la realtà e le storie che mi vengono raccontate nella maniera più fedele possibile. Prima ancora di iniziare a ideare un progetto fotografico, entro in contatto con le persone locali che ho intenzione di ritrarre: mi avvicino a loro passo dopo passo, le ascolto e cerco di guadagnarmi la loro fiducia, per addentrami maggiormente nelle loro vite. È proprio durante questa prima fase di conoscenza reciproca che il progetto inizia a delinearsi in mente e a svilupparsi: immagino i primi scatti, le prime inquadrature possibili. Le foto che realizzo rappresentano spesso delle abitudini, azioni e gesti che costellano la quotidianità di queste persone. Ogni progetto ha però un periodo di gestazione differente e per me imprevedibile.
Gli scatti giusti, che funzionano e di cui sono più soddisfatto, sono quelli in cui si è venuto a creare un rapporto immediato, genuino e diretto con il soggetto rappresentato.
Inshallah è un progetto che affronta temi di speranza e incertezza in una comunità emarginata, ed è stato uno dei progetti che ci ha più colpito tra tutti quelli che abbiamo ricevuto. Ci vuoi raccontare com’è nato e qual è il lavoro che c’è alle sue spalle?
Mi fa davvero piacere che Inshallah vi abbia colpito. È un progetto a cui tengo moltissimo, e vorrei che la storia di questi giovani residenti nel barrio Príncipe Alfonso di Ceuta avesse una risonanza anche qui, in Italia, e nel cuore dell’Europa, dove confini e frontiere sono chiari e determinati e il senso di appartenenza degli abitanti al proprio territorio è inequivocabile.
Il progetto è nato quasi per caso: nel 2023 ho preso parte alla masterclass in fotogiornalismo della redazione di InsideOver a Milano, a cura di Antonio Faccilongo. Tra gli obiettivi del corso c’era proprio quello di produrre un reportage fotografico. Ho iniziato così a trovare un luogo d’ispirazione in cui dare vita al progetto e Ceuta – città di frontiera ed enclave spagnola su territorio marocchino – ha avuto la meglio sulle altre proposte. Poco dopo sono partito per il viaggio. Inshallah è una storia nata là, senza una mia progettazione a priori. Contattando giornalisti e fotografi locali, ho iniziato a conoscere più da vicino qualche storia, nessuna di queste, però, mi aveva realmente colpito, tanto che, dopo una settimana intensa di ricerche, avevo pensato di abbandonare la ricerca.
Le mie prospettive sono cambiate quando ho conosciuto Ismael Mohamed Ahmed: un ragazzo che aveva già lavorato per testate giornalistiche e televisioni europee, riportando le testimonianze dei viaggi dei migranti. Parlando con lui, ho scoperto le difficili condizioni di vita dei giovani del barrio Príncipe Alfonso, con prospettive di studio e lavoro molto limitate, in un quartiere musulmano situato al confine con il Marocco, isolato e poco sicuro. Mi incuriosiva la storia e ho deciso di approfondire.
I primi ragazzi, protagonisti dei ritratti, me li ha fatti conoscere Ismael, e poi con il passaparola, ne ho conosciuti altri. Non è stato facile entrare nelle loro vite: sono sottoposti continuamente a pregiudizi sociali, anche dalla stampa. Sono riuscito a scattare le prime fotografie solo dopo venti giorni. Questo, però, mi ha dato la possibilità di conoscerli a fondo e instaurare un rapporto di fiducia con loro, un aspetto che spero si percepisca in Inshallah.
Hai progetti in cantiere per il futuro?
Il mio obiettivo per l’immediato futuro è portare avanti Inshallah, che è un progetto ancora “in progress” che necessita di essere arricchito con un nuovo repertorio fotografico.
Presto, infatti, tornerò a Ceuta per conoscere altri giovani del barrio Príncipe Alfonso e iniziare a coinvolgere nei ritratti anche alcuni componenti delle loro famiglie.
Questo materiale inedito mi servirà per completare il progetto espositivo della mia prima mostra personale che si terrà alla Galleria Pescheria di Cesena, a cura di Lara Gaeta e in collaborazione con il Comune di Cesena, il prossimo settembre 2025.
Parallelamente a questo progetto, sto portando avanti delle ricerche sulle così definite no-go zones o no-go areas in Europa: quartieri cittadini ad accesso limitato, o perfino vietato, territori marginali in cui non esiste integrazione e dove gruppi etnici differenti tendono ad azioni di criminalità e alla radicalizzazione ideologica.
Inshallah, 2023, reportage fotografico
Aissa Rouk El Masoudi (22), vive a Ceuta nel barrio Principe Alfonso, studia Ingegneria informatica. Sogna di creare un’app per migliorare la vita delle persone e si rilassa con un tuffo al tramonto, pensando al proprio futuro.
Vista della “Valla” al tramonto a Benzù. I migranti, sfuggendo ai controlli, tentano di attraversare a nuoto per raggiungere Ceuta, “Porta d’Europa”.
Hassan Ouazzani Touhami Mohamed (19) si riposa sulla spiaggia dopo l’allenamento. Ha cambiato vita, iscrivendosi all’Università per studiare Scienze Motorie.
Aissa Rouk El Masoudi (22) e l’amico Imad scommettono sulla vittoria di Aissa alla Hackathon di Ceuta, un evento per sviluppatori di software.
Vista del barrio Principe Alfonso, caratterizzato dalle case colorate, simili a quelle delle favelas brasiliane, vicino al confine con il Marocco.