Walk Silently in the Dark Until Your Feet Become Ears. Il titolo della vostra nuova mostra alla Kunstnernes Hus è davvero intrigante. Potete dirmi come si collega alle opere esposte?
Per noi il titolo evoca magnificamente il potere trasformativo del movimento, in particolare, dei movimenti corporei in armonia con gli altri. Riteniamo che le passeggiate silenziose al buio siano una pratica che rimodella i corpi, i loro ritmi e le loro relazioni con l’ambiente. Questa frase specifica è tratta dalle istruzioni per un esercizio di ascolto profondo della compositrice e musicista elettronica Pauline Oliveros, il cui lavoro è sempre stato un’importante fonte di ispirazione per noi.
Il cuore della mostra, l’installazione video Les Gayrillères, esplora il diritto di essere “opachi” e di controllare la propria visibilità. Potete spiegarci meglio questa idea e il suo significato nel contesto odierno?
Per il film abbiamo collegato il concetto di “opacità” ai movimenti della danza. Abbiamo lavorato con cinque coreografi/performer e tutte le luci di scena erano fissate sui loro costumi. Le loro braccia, gambe e teste in movimento, facevano luce sugli altri personaggi e su di loro. Il movimento o gesto successivo, quello che stavano per compiere avrebbe potuto portar via tutta la luce e proseguire nel buio. Insieme abbiamo creato una coreografia in cui il movimento dei corpi e la luce producono un gioco di oscurità ed esposizione.
Nella nostra educazione di sinistra abbiamo imparato che diventare visibili è il presupposto necessario per ottenere dei diritti, e questo può essere vero in determinate situazioni. Tuttavia, siamo turbati dall’idea che l’estrema visibilità potrebbe non funzionare per tutti. Alcuni di noi sono sempre stati resi “ultra visibili”; siamo stati perquisiti, ricercati, sorvegliati o oppressi a livello visivo in modi diversi. Se una persona non ha mai avuto bisogno di scomparire dalla vista, potrebbe avere molta familiarità con l’esigenza di “opacità”, un concetto coniato dallo scrittore, poeta e attivista Edouard Glissant. Per lui, l’opacità è una strategia utile nella lotta coloniale. Più in generale, è una precondizione della capacità di vivere senza essere categorizzati o misurati e di avere il diritto alla diversità. Abbracciare le differenze, impegnarsi in un lavoro collaborativo e controllare la propria visibilità mascherandosi e mostrandosi, sono anche alcune delle politiche essenziali che le culture queer hanno portato avanti nel tempo. Ci piace come, nel film, l’individuo scompaia nel buio e le braccia, le gambe, gli occhi o i capelli rimangano lì in piccoli momenti di luce collettiva.
Il film si ispira al romanzo femminista di Monique Wittig Les Guérillères. Quale narrazione state cercando di trasmettere attraverso questo riferimento?
Il libro di Monique Wittig mette il dito sulla connessione tra mascolinità e guerra inventando una parola che mescola guérilla e la forma femminile della parola francese guerrieri, guerrières. L’opera della Wittig, inoltre, non rinuncia a prendere sul serio l’aggressività e la violenza, pur delineando modi di convivenza diversi. Il suo libro immagina un agguerrito gruppo di femministe/lesbiche che si oppongono all’idea di eroismo individuale e si muovono insieme verso uno stesso destino.
Anche nella nostra installazione video I Want, che riprende il materiale delle rivelazioni di Chelsea Manning sulle atrocità della guerra e le strategie estetiche “de-individualizzanti” di Kathy Acker, lavoriamo su concetti simili, mettendo insieme la resistenza contro la guerra, la questione del genere e il trans-attivismo.
Il titolo Les Gayrillères ripropone nuovamente il gioco di parole della Wittig, trasformando l’idea di guerra nel ritmo collettivo di una folla queer. Questa folla è inserita in un mondo in cui la visibilità è rischiosa e la trasformazione è un difficile lavoro di mantenimento che consiste nell’eseguire compiti in continua ripetizione.
La mostra comprende anche sculture che mettono in scena il rapporto tra schermo e spazio fuori dallo schermo, tra suono e ascolto. In che modo questi oggetti facilitano l’esperienza e il coinvolgimento del visitatore?
Queste sculture sono tutte legate alla performance. Sono fatte di parrucche e catene – elementi che appaiono spesso nei nostri film come oggetti di scena o dei costumi – o microfoni e pezzi appartenenti a pavimenti di piste da ballo usati, che portano ancora le tracce di performance passate. Sono elementi che abitano nel confine tra l’essere un oggetto quotidiano, un oggetto di scena o una scultura; sembrano essere usciti dal film e di essersi posizionati nello spazio espositivo.
Per creare questi oggetti, abbiamo scelto materiali che creano passaggi tra mondi diversi. Le catene sono usate per legare o come gioielli. I microfoni sono utilizzati nella musica o per amplificare la voce di chi proteste. Il fumo viene utilizzato per nascondere i corpi nei club o per sottolineare la propria presenza nelle manifestazioni. Di tanto in tanto parliamo degli oggetti di scena come di ulteriori interpreti; nei nostri film, spesso si muovono indipendentemente dai corpi. Nella mostra di Oslo, potrebbero anche essere visti come un gruppo di performer aggiuntivi, nascosti ancora dietro le quinte, che si scaldano per una performance che non è ancora avvenuta.
Potete dirci qualcosa di più sul processo di collaborazione con i vostri interpreti, ovvero con i coreografi, gli artisti e i musicisti?
Non abbiamo mai scritturato degli interpreti; ci piace lavorare con persone di cui apprezziamo e ammiriamo la pratica. Vogliamo impegnarci in una conversazione continua su estetica, politica e pratiche di vita. Inoltre, lavoriamo il più possibile con lo stesso team cinematografico. Per esempio, Bernadette Paassen è stata la nostra direttrice della fotografia per anni e per la post-produzione del suono abbiamo sempre lavorato con Rashad Becker. In “Les Gayrillères”, abbiamo chiesto a Julie Cunningham e Harry Alexander di produrre una sequenza coreografica che tutti i ballerini potessero eseguire, e da lì abbiamo iniziato a lavorare sulla coreografia generale. Di solito ci incontriamo con gli interpreti, portiamo alcune idee e immagini e iniziamo con improvvisazioni che registriamo costantemente. Guardiamo il filmato, selezioniamo le parti che funzionano per la telecamera e cerchiamo di renderle più precise nella sessione successiva. Da lì, produciamo uno schizzo cinematografico che è il nostro storyboard per le riprese. Tuttavia amiamo molto anche i fallimenti e le coincidenze, e spesso i nostri piani vanno oltre, fino ad arrivare a qualcosa che non avevamo previsto e che è molto meglio di tutto ciò che avevamo accuratamente pianificato.
Les Gayrillères fa parte di una trilogia di film, insieme a Moving Backwards e (No) Time, che sono stati presentati in sedi prestigiose in tutto il mondo. Ci potete illustrare i temi principali di queste tre opere?
Per la prima volta presentiamo tutti e tre i lavori insieme, e lo facciamo, in questo momento, alla Biennale di San Paolo. Sono tutti film incentrati sulla danza e sulle tematiche queer, toccando questi argomenti in modi diversi.
Moving Backwards, la prima installazione che abbiamo realizzato per il Padiglione svizzero della Biennale di Venezia nel 2019, è composta da una telecamera che si muove incessantemente da destra a sinistra e da sinistra a destra alla stessa velocità. I suoi movimenti sono amplificati da una tenda automatica di paillettes lucide. Alcune sequenze, apparizioni e coreografie di gruppo sono eseguite al contrario, mentre altre sono invertite digitalmente. Ad esempio, il ballerino Marbles Jumbo Radio ha imparato a ballare una delle sue coreografie al contrario. Poi, la sequenza filmata è stata nuovamente invertita in post-produzione. A volte è stata invertita solo la musica. Tutto questo crea dubbi e ambiguità temporali per l’intera installazione. In qualche modo non si sa mai se si vede il passato o il futuro di un movimento.
In (No) Time, abbiamo ballerini che si esibiscono contemporaneamente a due velocità temporali diverse; per esempio, uno si esibisce molto velocemente e l’altro molto lentamente nella stessa scena. Non si comprende se i movimenti possano essere attribuiti alle abilità degli interpreti o se siano stati realizzati in post-produzione. I movimenti automatici di una porta girevole e delle tende che si alzano e si abbassano producono un ritmo a sé stante.
Tutte e tre le installazioni sono realizzate con danzatori/performer che provengono da contesti performativi molto diversi, come la danza postmoderna, la street dance e la performance drag.
Pauline Boudry / Renate Lorenz, Les Gayrillères, 2022, Two-channel video installation. Installation view: Walk Silently in the Dark Until Your Feet Become Ears, Kunstnernes Hus, 2023 Choreography/performance: Harry Alexander, Julie Cunningham, Werner Hirsch, Nach, Joy Alpuerto Ritter, Aaliyah Thanisha. Gayrillères choreography: Julie Cunningham and Harry Alexander Courtesy of Marcelle Alix, Paris; Ellen de Bruijne Projects, Amsterdam Photo: Annik Wetter
Pauline Boudry / Renate Lorenz, Les Gayrillères, 2022, Two-channel video installation
Installation view: Walk Silently in the Dark Until Your Feet Become Ears, Kunstnernes Hus, 2023
Choreography/performance: Harry Alexander, Julie Cunningham, Werner Hirsch, Nach, Joy Alpuerto Ritter, Aaliyah Thanisha. Gayrillères choreography: Julie Cunningham and Harry Alexander
Courtesy of Marcelle Alix, Paris; Ellen de Bruijne Projects, Amsterdam
Photo: Annik Wetter
Pauline Boudry / Renate Lorenz, Les Gayrillères (film still), 2022, Two-channel video installation
Choreography/performance: Harry Alexander, Julie Cunningham, Werner Hirsch, Nach, Joy Alpuerto Ritter, Aaliyah Thanisha. Gayrillères choreography: Julie Cunningham and Harry Alexander
Courtesy of Marcelle Alix, Paris; Ellen de Bruijne Projects, Amsterdam
Pauline Boudry / Renate Lorenz, Les Gayrillères, 2022, Two-channel video installation Installation view: Walk Silently in the Dark Until Your Feet Become Ears, Kunstnernes Hus, 2023 Choreography/performance: Harry Alexander, Julie Cunningham, Werner Hirsch, Nach, Joy Alpuerto Ritter, Aaliyah Thanisha. Gayrillères choreography: Julie Cunningham and Harry Alexander Courtesy of Marcelle Alix, Paris; Ellen de Bruijne Projects, Amsterdam Photo: Annik Wetter
Pauline Boudry / Renate Lorenz
Exhibition view: Walk Silently in the Dark Until Your Feet Become Ears, Kunstnernes Hus, 2023
Photo: Annik Wetter
Pauline Boudry / Renate Lorenz, I WANT, 2015, Two-channel video installation
Exhibition view: Portrait of an Eye, Kunsthalle Zürich, 2015
Performer: Sharon Hayes
Courtesy of Marcelle Alix, Paris; Ellen de Bruijne Projects, Amsterdam
Photo: Annik Wetter
Pauline Boudry / Renate Lorenz, Moving Backwards, 2019, Video installation
Installation view: Swiss Pavilion, Venice Biennale, 2019
Choreography/performance: Julie Cunningham, Werner Hirsch, Latifa Laâbissi, Marbles Jumbo Radio, Nach.
Courtesy of Marcelle Alix, Paris; Ellen de Bruijne Projects, Amsterdam
Photo: Annik Wetter
Pauline Boudry / Renate Lorenz, (No) Time, 2020, Video installation
Installation view: Rennes, 2021
Choreography/performance: Julie Cunningham, Werner Hirsch, Joy Alpuerto Ritter, Aaliyah Thanisha
Courtesy of Marcelle Alix, Paris; Ellen de Bruijne Projects, Amsterdam
Photo: Aurélien Mole
Pauline Boudry / Renate Lorenz
Photo: Bernadette Paassen