L’essenza delle opere di Sanié Bokhari risiede in un limbo, caratterizzato dalla doppia identità di un’artista nata e cresciuta in Pakistan, poi trasferitasi negli Stati Uniti.
Per questo motivo, i personaggi delle sue opere fluttuano spesso in una dimensione liquida, sospesa tra spazio e tempo, tra ricordi e allucinazioni di un posto lontano, che fa parte del suo immaginario e del suo linguaggio culturale.
Tuttavia, è da questo profondo spazio intermedio che l’artista è in grado di trasmettere una prospettiva unica della sua vita e della sua identità sia in Pakistan che negli Stati Uniti, mettendo in discussione le tradizioni che si è lasciata alle spalle, ma anche apprezzando e appropriandosi di elementi provenienti da molto lontano.
Quando ci siamo incontrate durante le vacanze invernali nel suo studio di Brooklyn, Sanié era appena tornata da un viaggio in Pakistan, evitando il circo della settimana dell’arte di Miami, per tornare invece nella sua città natale e dalla sua famiglia.
Sanié Bokhari si è trasferita negli Stati Uniti per la scuola di specializzazione e dopo aver conseguito un master presso la Rhode Island School of Design, ha deciso di rimanere.
Inizialmente lavora per un po’ per un artista, poi decide di trascorrere un periodo in patria a causa della pandemia e di problemi legati al visto, una volta tornata negli Stati Uniti, Sanié capisce che New York è il posto giusto per lei, per ora, per esplorare appieno la sua pratica.
Nel mostrarmi alcuni lavori precedenti, posso constatare come la sua pratica artistica si sia evoluta piuttosto rapidamente nell’ultimo anno, raggiungendo un linguaggio visivo molto specifico e coerente che è allo stesso tempo intimo, fondato sul contesto storico di appartenenza e universalmente interconnesso con la più ampia storia culturale e visiva della sua terra d’origine.
Lavorando principalmente su tela e su carta, Sanié ha formulato un’interpretazione contemporanea dell’antica tradizione delle miniature: lo stile grafico fatto di linee sinuose è ancora presente e, come lei stessa ammette, la fonte di ispirazione principale per gli elementi e le simbologie che incorpora rimangono i libri dell’antica India e dalle narrazioni mitologiche e religiose pakistane.
Al centro della scena, tuttavia, Sanié raffigura questa sorta di alter ego di se stessa: figure femminili spesso impegnate in espressioni meditative, mentre vagano nella loro presenza spettrale tra un regno mentale e spirituale, già al di là di qualsiasi realtà fisica.
Anche l’uso seducente della tavolozza di colori adottata è piuttosto evocativo: basata principalmente sui toni grigi della grafite, sul blu profondo e su un rosso di recente introduzione, questi colori funzionano sia come connettori con il paesaggio e le tradizioni della sua terra d’origine, sia allo stesso tempo permettono un’astrazione della scena che li conduce ad altre dimensioni.
Il grigio della grafite, come spiega l’artista, immerge queste scene nella stessa atmosfera nebbiosa che trova ogni volta che atterra in Pakistan, a causa degli attuali drammatici livelli di inquinamento che trasformano il paesaggio urbano in una confusa serie di presenze ombrose e nebulose.
I nuovi rossi introdotti portano invece le opere alla realtà più appassionata del corpo femminile – qualcosa che ha potuto esplorare più apertamente solo negli Stati Uniti.
Infine, il blu trasferisce queste scene in una dimensione più fluida, inconscia, memoriale o onirica, in uno spazio sospeso.
Come spiega Sanié, lei ha deciso di adottare un pigmento blu molto specifico che ha trovato durante un viaggio in Marocco, che aggiunge un tono malinconico all’opera. Questo blu è simile a quello usato da Picasso nel suo periodo blu, dal quale è notevolmente affascinata.
L’artista confessa che quando finalmente ha visitato il Musèe Picasso di Parigi e ha visto un’intera sala di dipinti del periodo blu, ha avuto una sorta di folgorazione: questi toni blu che sembrano così senza tempo e universali, e i caratteri malinconici di questi dipinti le parlavano.
Tutte le opere di Sanié Bokhari appaiono attraversate da una simile e irriducibile malinconia, ma che deve essere interpretata più come lo spleen del Romanticismo: una malinconia più fertile, che concede al genio artistico la creazione di un luogo di contemplazione, fondamentale per riflettere sulla propria posizione e condizione nell’universo.
C’è un senso di nostalgia, ma anche di possibilità di redenzione e rigenerazione ad animare la maggior parte delle opere di Saniè, elementi che svelano le preoccupazioni di una giovane donna che si confronta con la tradizione secolare e le norme sociali, con la pressione delle aspettative familiari e con l’irriducibile bisogno di un’elevazione spirituale anche in una vita contemporanea urbana sempre più distaccata.
È interessante notare che Sanié rappresenti più figure, che nei dipinti coesistono con quella principale come presenze ombrose e inquietanti: sono sia le proiezioni del sé, sia il riflesso della molteplicità di caratteri, identità e pulsioni che coesistono nell’individuo.
Quando ci addentriamo nella discussione sulla sua tecnica e sull’uso dei materiali, posso osservare come questa dualità esista anche nel processo dietro alle sue tele.
Sanié mi rivela che spesso tutto inizia come pura astrazione: ama liberarsi con movimenti liberi di pigmenti di colore e maree pittoriche che si posano sulle superfici.
Dopo questa prima fase, si passa alla fase di costruzione, modellando e plasmando le texture sulla superficie con l’uso unico del fondo per acrilici, tecnica che ha sviluppato negli ultimi mesi.
Gli strati aggiuntivi di grafite e pittura saranno infine assorbiti in modi inaspettati e interessanti da questa superficie così preparata, arricchendone le atmosfere elaborate con molteplici effetti ottenuti all’interno di questa tesa oscillazione tra intuizione, intenzione e improvvisazione che attraversa tutto il processo.
D’altra parte, quando si tratta di delineare le sue figure, Sanié si basa in gran parte sul suo precedente studio delle tecniche tradizionali di miniatura, che ha poi adottato e sviluppato in modo molto contemporaneo e personale.
La maggior parte dei suoi personaggi e delle sue composizioni si ispira ancora ad alcune antiche miniature Sud asiatiche, creando questi spazi misteriosi che sfuggono al canone prospettico occidentale per esplorare una diversa concezione spaziale che contempla e combina sia il mondo fisico che quello interiore. Da queste conserva anche la capacità di costruire un campo visivo di pari leggibilità, unita a un sovraccarico di sensi tra linee, colori e atmosfere.
Talvolta tormentate e inquietanti, spesso spiazzanti, le sue opere visionarie sembrano attingere in questo modo da alcune verità umane più profonde, che si ricollegano ad antichi saperi.
Le sue composizioni infatti risultano sospese in un “luogo senza luogo”, una a-topia, un no-place tra utopia e distopia che, separato dal tempo lineare, racchiude già l’universalità di molteplici coscienze, narrazioni, tempi e spazi, in un pluralismo di riferimenti.
In alcune sue opere recenti possiamo poi osservare una manifestazione visiva completa di questa “doppia coscienza”, tipica dell’esperienza della diaspora: una metafora di una coscienza critica non collocabile geograficamente, simile a uno studio della natura dell’essere umano, ma che trascende le specificità culturali.
È interessante notare che anche la miniatura indiana ha avuto questo carattere di pluralismo durante tutto il suo sviluppo, a dimostrare la ricchezza della cultura dalla quale è nata: nonostante la miniatura indiana esisteva in varie forme fin dal IX secolo, non c’è stata una visione coesa fino alla nascita dell’Impero Mughal nel 1526, quando il genere si è affermato ufficialmente. Da quel momento la miniatura ha iniziato a riflettere anche il multiculturalismo incoraggiato dall’impero: le miniature Mughal sono una miscela dei colori vivaci preferiti dai pittori indiani, combinati con le linee sottili utilizzate dai pittori persiani e con l’influenza europea di artisti come Albrecht Dürer, portato in India dai missionari gesuiti.
Con l’occasione della sua recente mostra personale al KAPOW Sanié è tornata a dedicarsi alla scultura, realizzando un’accattivante palla da discoteca che ha immediatamente catturato l’attenzione di tutti, in quanto riportava una scritta in caratteri Urdu sulla sua superficie lucente.
Come spiega l’artista, l’opera è stata ispirata da un evento recente: durante uno dei suoi ultimi viaggi di ritorno in Pakistan è andata a una festa organizzata da un amico, dove era appesa al soffitto una palla da discoteca con un verso del Corano.
Quando, qualche giorno dopo, la foto della palla da discoteca e della festa ha iniziato a circolare sui social media, l’amico ha ricevuto aspre critiche accusandolo di blasfemia – un episodio che rivela molto della forte presenza della religione, della sua politicizzazione e interpretazione acritica, e del continuo controllo della vita pubblica e personale.
Tuttavia, nel ribadire questo concetto con la sua opera, Sanié ha voluto giocare con alcuni degli stereotipi esistenti da questa parte del mondo, svelando come negli Stati Uniti l’uso dei caratteri arabi sia immediatamente collegato a qualche estremismo religioso – mentre nella sua versione della palla da discoteca la scritta significava in realtà solo “Benvenuto”.
Oggi, Sanié sta lavorando su altre tipologie di opere e vuole esplorare la portata di questa specifica “provocazione” scultorea delle sue rapresentazioni.
Come riflette Sanié, le differenze tra i due Paesi sono enormi, soprattutto per un’artista donna come lei che qui ha potuto confrontarsi con una libera rappresentazione di sé, del proprio corpo, delle proprie paure ed emozioni. Allo stesso tempo però il livello di libertà tra i due Paesi è solo apparentemente diverso: se guardiamo all’estrema polarizzazione delle opinioni e delle tensioni negli Stati Uniti oggi, ci rendiamo conto che si tratta solo di un altro tipo di conservatorismo, o di censura.
Un’altra prova di questo è stata offerta dalla ricezione di uno dei pezzi centrali dell’ultima mostra personale dell’artista: in una tela potente simbolicamente, Sanié si è ritratta mentre fuma, con le gambe alzate e una serie di embrioni come presenze spettrali che escono fluidamente da lei, che si trova distesa su un campo di funghi rossi.
L’opera è situata in una dimensione alternativa, prima e oltre la coscienza, nella possibile proiezione del sé in uno stato alterato e allucinogeno.
Nonostante l’opera sia probabilmente uno dei principali capolavori finora realizzati dall’artista, i collezionisti spesso se ne allontanavano, perché considerata troppo “carica” da molti degli interessati.
Tutte le opere di Sanié sembrano testare e mettere in discussione l’effettiva libertà concessa, in contesti diversi, dove le narrazioni personali offerte da una giovane donna di origine pakistana nell’attuale società americana altamente polarizzata si inseriscono in un contesto in cui le opere politicamente corrette sono ancora preferite a quelle più impegnative.
In questo senso, l’opera di Sanié Bokhari si trasforma così in una piattaforma critica di dialogo e confronto culturale che indaga i limiti e le possibilità di esposizione ed espressione culturale e personale in contesti diversi, sfidando al contempo un approccio basato su stereotipi nei confronti del “mondo musulmano” e del corpo della donna musulmana che persiste negli Stati Uniti dall’11 settembre.