Nel suo lavoro Sarah Entwistle raduna oggetti e frammenti di materiali; la sua è una pratica quotidiana che, attraverso l’atto del ricordo, calibra il tempo e lo spazio. Negli ultimi anni questo rituale ha iniziato a minare la storicità dell’archivio ereditato da suo nonno. Approcciandosi a questi materiali inediti, Entwistle rivede e ricostruisce incessantemente nuove linee narrative – scambiando oggetti e composizioni all’interno delle sue installazioni in un riciclo che integra passato e presente.
In questa intervista abbiamo parlato con lei della fusione delle loro biografie, del confondere la proprietà e di come creare una nuova storia da zero.
Le tue installazioni derivano da un dialogo con l’archivio di tuo nonno l’architetto Clive Entwistle. Hai iniziato a filtrare e digerire i suoi contenuti, replicando l’espediente del reimpiego, noto in architettura come quella tecnica di riciclo di materiali storici in costruzioni più recenti. Di che natura è questo scambio tra il suo archivio e la tua pratica artistica? Cosa stai prendendo da lui e cosa gli stai dando?
La natura di questo scambio si modifica e adatta ai molteplici fattori che sorgono nei contesti in qualsiasi momento. Per me l’archivio diventa una risorsa che sento essere infinita, e che riesco a percepire come nuova ogni volta che mi addentro nella massa dei materiali che lo costituiscono. Ha qualità aptiche con le quali interagisco come riferimento o come materiale grezzo. Allo stesso tempo questo materiale ha le sue intenzioni, la sua etica, idee e narrazioni di genere, da cui partire per articolare una relazione. Quindi, mentre questo “reimpiego” può sembrare esplicito quando uso elementi attingendo direttamente dall’archivio per un’installazione, più spesso metabolizzo internamente ciò che estraggo e quando riemerge nel mio lavoro si è già nettamente separato da Clive, e rinasce in una forma nuova e distinta da quella originaria dell’archivio. Cosa do io a lui, penso che ci provo e lo libero dalle sue…
“L’archivio come un residuo di idee non realizzate” come tu lo definisci, sembra essere spazialmente tradotto nelle tue installazioni come una congerie eteroclita di oggetti, mobili e tappeti. Mi chiedo, quali sono le idee, realizzate o non, che ti interessa maggiormente perseguire?
Per quanto riguarda le idee credo mi interessi architettonicamente il presente, che si potrebbe sostenere viene reiterato nei valori e nei modi di essere al mondo… Al momento sono interessata alla frammentazione, all’astrazione, al colore, alla trasparenza, all’opacità, alla forma aperta.
Citi la combinazione fra sesso ed erotismo nei lavori di tuo nonno, come si fondono ed emergono questi elementi nel tuo lavoro?
Credo che il suo “reflectabed”, un divano con specchi a panopticon sia un esempio piuttosto calzante della fusione esplicita fra sesso e design nel suo lavoro, di sesso come qualcosa da osservare e presiedere. Credo che questo sia un tema che possiamo ritrovare anche nei suoi progetti architettonici. L’idea di un oggetto totalizzante che sta al di fuori dell’esperienza somatica. È un approccio che privilegia la vista. Penso che il mio lavoro sia sempre una reazione a questa idea di sesso e di erotismo. Il mio processo è incarnato e aperto, la fabbricazione dei lavori è spesso molto fisica e agile.
Ingaggio quella che definirei una carica erotica che credo molti di quelli che creano qualcosa sentono quando le intuizioni corporee sono in sintonia con la mente. Credo che Clive lo sentisse, e in questo siamo molto simili, qui è dove sento la mia vicinanza e affinità con lui maggiormente.
Puoi dirci qualcosa di più sui lavori esposti per Atlante Temporaneo? A cosa si riferiscono i titoli? E da cosa sono composte queste installazioni?
I lavori esposti sono stati pensati per la mostra “The knots of tender love are firmly tied” alla Galerie Barbara Thumm di Berlino. Sebbene gli elementi non siano sempre gli stessi, c’è una certa libertà nel riuso di oggetti e parole per comporre i titoli. Lo scambio concettuale fra oggetti e parole crea un ampio spazio di interpretazione e traduzione e questo per me è un elemento molto importante. Nell’opera I always know when you are lying (“Io so sempre quando menti”) il titolo è preso da una lettera scritta da Clive alla sua fidanzata, che in seguito diverrà la sua terza moglie. Questa frase può avere diverse interpretazioni, possiamo interpretarla come uno scherno, ma percepisco anche un tono più cupo di masochismo e punizione, lo vedo come un elemento con energie che oscillano dal maschile al femminile che credo siano tradotte in qualità formali e materiali nell’allestimento. When I stay at the studio they look after the cat (“Quando sto allo studio loro si prendono cura del gatto”) è di nuovo un residuo dall’archivio, questa volta preso a prestito da una lettera indirizzata a Clive da sua madre Vivianne Entwistle. Entrambe le installazioni sono composte da elementi trovati, in particolare da pannelli di metallo, e oggetti fabbricati a mano come le ceramiche.