Chantal Joffe

Novembre 2023

La pittrice Chantal Joffe usa rapide pennellate per creare immagini istantanee di momenti personali e quotidiani estratti da esperienze di vita, fotografie o immagini di riviste. Le figure nei suoi quadri, enfatizzando il processo fisico della pittura, ne trasmettono il lato emotivo e psicologico. Le sue opere dimostrano che non esiste una prospettiva univoca ed oggettiva, al contrario, le distorsioni di forme e di scala spesso rendono un soggetto più reale. 

Abbiamo incontrato Chantal per parlare delle sue opere in occasione della mostra The Eel tenutasi presso Victoria Miro Venice.

Le tue opere vengono descritte come una sorta di ritratto onesto e brutale dove riesci a fotografare l’umore del soggetto ritratto. Nei tuoi quadri le figure, spesso femminili, sono psicologicamente cariche di strati di pittura che crea un paesaggio composito di volti e corpi. Parlando di soggetti, in una conversazione con Katy Hessel hai detto: “I pittori delle caverne cominciarono con se stessi”, dal momento che dipingevano ciò che li circondava. Ho anche letto che hai affermato che i tuoi dipinti sono “un mix di tutto ciò che mi preoccupa”. È ancora così? Come si è evoluta la scelta di ciò che i tuoi occhi vedono e selezionano?

È assolutamento vero. Dipingo sempre quello che mi succede in un dato momento. Quando mia figlia era piccola la dipingevo, e, prima ancora, ritraevo me stessa quando ero incinta. Ho provato a dipingere le evoluzioni nella nostra relazione così come quello che sta accedendo in questo momento nella mia famiglia. Non si tratta di una scelta per me, è un modo per comprendere quello che succede nella mia vita. Quando sono stata malata ho realizzato una serie di disegni che descrivono quello che mi stava succedendo. Attraverso l’arte descrivo ciò che mi succede, per questo sento veramente che non ho molta scelta a riguardo dei soggetti che uso, è il mio modo di comprendere il mondo.

 

In Funny Weather, il libro di Olivia Laing dove sei uno dei personaggi intervistati, affermi che essere un pittore è un po’ come essere un parrucchiere: i tuoi soggetti si abbandonano alla speranza che tu riesca a vedere la loro parte migliore. Alcune righe più avanti c’è un’altra riflessione interessante in cui affermi: “Non si può dipingere la realtà: puoi solo dipingere il tuo posto dentro di essa, ciò che vedi con i tuoi occhi come manifestazione delle tue stesse mani”. Ti chiedo quindi come può l’arte farci vedere la realtà in modi differenti?

Questa domanda è complicata! Rifletto un sacco su come comprendere il mondo che mi circonda, anche quando guardi lo stesso paesaggio una persona può avere un’impressione molto diversa dalla tua. Un mio amico che soffre di miopia vede il mondo in modo un po’ diverso, sfocato, questo mi ha fatto capire che ogni singola persona vede il mondo a modo suo. Siamo incapaci di esperire le esperienze altrui, anche quando desideriamo strenuamente provare i sentimenti degli altri, c’è sempre un divario tra come lo si immagina e come è veramente vivere una certa emozione o situazione, e questa è la definizione di empatia, comprendere come qualcun altro si sente. Quando ritraggo qualcuno, ci sono molto vicino, in genere si porta con sé i presupposti riguardo l’altra persona, eppure c’è sempre una separazione tra come loro si immaginano e come tu li vedi.

“Venezia è una fabbrica di immagini, un meccanismo per stimolare l’occhio”, Olivia Laing scrive giustamente nel testo che accompagna la mostra. Hai trascorso i mesi estivi in residenza a Venezia, un’esperienza che ha cambiato il tuo senso della luce e la palette dei colori, dal momento che in questa nuova produzione abbondano gli azzurri e il giallo. Che cosa ti ha influenzato di più durante il tuo soggiorno qui?

Quando sono arrivata a Venezia sono quasi andata nel panico, iniziare da capo in una nuova città con un nuovo studio è stato strano. Il primo dipinto che ho fatto era un autoritratto di me sdraiata a letto mentre piangevo. Ma improvvisamente ce l’ho fatta, ho iniziato a dipingere le cose che erano qui, ho iniziato ad andare al Lido, l’esperienza delle mie giornate in spiaggia ha informato i dipinti, in un certo senso ho dipinto il mio modo di entrare a Venezia e tutto ciò che so di Venezia ha iniziato a entrare in me. È stato un regalo incredibile poter essere qui.

 

Per questa mostra volevi ritrarre un’anguilla, per questo sei andata al mercato di Rialto per comprarne una, ma alla fine si è rivelato impossibile farne il soggetto per un quadro, nonostante ciò, The Eel, è divenuto il titolo della mostra e di un’altra opera. Non usi molto simbolismo, né nei titoli né nelle opere, sei più interessata a rivelare le verità attraverso le espressioni dei tuoi soggetti. Che cosa ti interessava nel ritrarre un tale tipo di soggetto?

Stavo pensando a Francesca Woodman, lei aveva scattato una foto a un’anguilla mentre era in Italia. Tempo fa ho avuto la fortuna di incontrare Edith Schloss, che conosceva Francesca e che possiede una delle prime copie del suo libro d’artista Some Disordered Interior Geometries. Edith mi ha parlato di lei, e quando sono venuta a Venezia avevo già l’idea di dipingere nature morte con frutta e verdura, poi ho visto l’anguilla al mercato e ho deciso di comprarne una, ma non avevo tenuto conto della fisicità del suo corpo, è un peso morto, e il pesce se ne stava lì con la lingua a penzoloni fuori dalla bocca. Ne avrei dipinto una sorta di ritratto freudiano in ogni senso della parola. Negli ultimi tempi ho dovuto affrontare diversi lutti, perciò non sono riuscita a dipingere questo animale morto. È stato disturbante, ero da sola nello studio con l’anguilla e mi veniva da gridare perché era uscita dal sacchetto e stava lì nel lavandino, ma non riuscivo a toccarla e a spostarla. Perciò, come dici tu, non sono molto simbolista nel mio lavoro. Ma posso dirti che lo studio è circondato dall’acqua e ho avuto questa sorta di terribile presentimento che mi sarei svegliata tramutata in anguilla. Perciò, pur essendo una persona che si sente molto legata al reale, la metafora mi ha inghiottito come un’anguilla e perciò ho dovuto sbarazzarmene. Mi sono sentita terribilmente in colpa per il sacrificio della sua vita, era una creatura morta che un tempo è stata viva, e come tutte quelle cose che non vogliamo vedere e sapere quando mangiamo carne o pesce. Ecco, questo episodio ha portato a galla tutte queste cose qui.

In mostra ci sono tele di diverse dimensioni, cosa cambia per te lavorare su formati grandi o piccoli; ho letto che per te le tele più grandi sono più teatrali, mentre le piccole più intime. C’è questa “logica della sensazione” o segui un sentimento diverso nella scelta del formato?

Penso che sia una scelta piuttosto istintiva. Mi sono sempre alternata fra formati grandi e piccoli, e come dici tu, una tela più piccola è più intima e privata, e in qualche modo contenuta. Poi però, a volte, sento la necessità di avere la portata, l’ambizione e lo spazio mentale che una tela grande crea. Sono stata di recente a visitare la mostra di Mark Rothko alla Fondazione Vuitton a Parigi e sono rimasta così colpita dalla serie che ha realizzato per il ristorante Four Season di New York, la pura scala e il fatto che il tuo corpo sia racchiuso interamente da quei dipinti. Penso che per me sia questo sentirsi dentro il dipinto quando dipingi su formati grandi ad attirarmi, e come si perda il tuo corpo dentro una scala così grande. La difficoltà e lo sforzo che serve per farle, e il gesto del dipingere: stai in piedi, ti pieghi, usi secchielli; è letteralmente come danzare con la pittura. È fisicamente emozionante ma richiede molta energia. Realizzare dipinti così grandi è come partire per un viaggio. I dipinti più piccoli invece non sono così, mi piace molto farli, per esempio, ho dipinto l’orologio di mio padre dopo che è venuto a mancare e questo doveva per forza essere un piccolo dipinto. A volte, invece, sento di dover fare un dipinto grande come ho fatto con il ritratto del mio partner, dipinto mentre dorme a letto. Quindi talvolta le dimensioni sono dettate dai soggetti, talvolta invece voglio fare il contrario; mi è sempre piaciuta l’idea di ingrandire qualcosa di piccola, lotto con questa tendenza. Mentre un corpo non può mai essere grande abbastanza per me. Magari parto già con una tela grande ma poi ne ho bisogno di una ancora più grande!

PHOTO CREDITS

Chantal Joffe, Letto (Spiaggia), 2023, Olio su tela. Courtesy l’artista e Victoria Miro

Chantal Joffe, Lido, 2023, Olio su tavola. Courtesy l’artista e Victoria Miro

Installation view Chantal Joffe, 5 settembre–21 ottobre 2023, Victoria Miro Venice. Courtesy l’artista e Victoria Miro

Installation view Chantal Joffe, 5 settembre–21 ottobre 2023, Victoria Miro Venice. Courtesy l’artista e Victoria Miro

Chantal Joffe ritratto; ph. Isabelle Young. Courtesy l’artista e Victoria Miro

BIOGRAFIA

Chantal Joffe (Vermont, US, 1969). Vive e lavora a Londra. Ha conseguito un MA al Royal College of Art di Londra ed è stata insignita del Royal Academy Wollaston Prize nel 2006. Joffe ha esposto internazionalmente in istituzioni quali The Modern, Fort Worth, Texas, USA (2022); Koohouse Museum, Yangpyong, Corea (2022); The Irish Museum of Modern Art, Dublino (2021); The Foundling Museum, Londra, UK (2020); Arnolfini, Bristol, UK (2020); Scottish National Gallery of Modern Art, Edinburgo, UK (2019); Whitechapel Gallery, Londra, UK (2018); The Lowry, Salford, UK (2018); Royal Academy of Arts, Londra, UK (2018, 2017); National Museum of Iceland, Reykjavík (2016); National Portrait Gallery, Londra, UK (2015); Jewish Museum, New York, USA (2015); Jerwood Gallery, Hastings, UK (2015); Collezione Maramotti, Reggio Emilia, Italia (2014–2015); Saatchi Gallery, Londra, UK (2013–2014); MODEM, Ungheria (2012); Turner Contemporary, Margate, UK (2011); Neuberger Museum of Art, Purchase, New York, USA (2009); MIMA Middlesbrough Institute of Modern Art, UK (2007). Le sue opere sono in numerose collezioni private ed istituzionali, incluse quelle dell’Institute of Contemporary Art, Boston, USA; Detroit Institute of Arts, USA; National Portrait Gallery, Londra, UK; and The Metropolitan Museum of Art, New York, USA.

BIOGRAFIA

Chantal Joffe (Vermont, US, 1969). Vive e lavora a Londra. Ha conseguito un MA al Royal College of Art di Londra ed è stata insignita del Royal Academy Wollaston Prize nel 2006. Joffe ha esposto internazionalmente in istituzioni quali The Modern, Fort Worth, Texas, USA (2022); Koohouse Museum, Yangpyong, Corea (2022); The Irish Museum of Modern Art, Dublino (2021); The Foundling Museum, Londra, UK (2020); Arnolfini, Bristol, UK (2020); Scottish National Gallery of Modern Art, Edinburgo, UK (2019); Whitechapel Gallery, Londra, UK (2018); The Lowry, Salford, UK (2018); Royal Academy of Arts, Londra, UK (2018, 2017); National Museum of Iceland, Reykjavík (2016); National Portrait Gallery, Londra, UK (2015); Jewish Museum, New York, USA (2015); Jerwood Gallery, Hastings, UK (2015); Collezione Maramotti, Reggio Emilia, Italia (2014–2015); Saatchi Gallery, Londra, UK (2013–2014); MODEM, Ungheria (2012); Turner Contemporary, Margate, UK (2011); Neuberger Museum of Art, Purchase, New York, USA (2009); MIMA Middlesbrough Institute of Modern Art, UK (2007). Le sue opere sono in numerose collezioni private ed istituzionali, incluse quelle dell’Institute of Contemporary Art, Boston, USA; Detroit Institute of Arts, USA; National Portrait Gallery, Londra, UK; and The Metropolitan Museum of Art, New York, USA.

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