L’abito non fa il monaco, si sa, tuttavia il modo in cui ci vestiamo influenza l’idea che diamo di noi e traduce anche la concezione che la società ha di generi, corpi e identità. Questi sono i temi che tratta nella sua pratica l’artista anglo-ghaniana Enam Gbewonyo, che usa i collant per raccontare storie di corpi e razzismo e usa la performance come pratica curativa e di riconciliazione.
Ad Atlante Temporaneo Gbewonyo espone diverse opere che riflettono su questa tematica, nell’intervista che segue abbiamo parlato con lei per approfondire le influenze e le idee dietro la sua arte.
Hai lavorato come designer di moda a New York prima di rientrare in Europa e dedicarti all’arte visiva. Nella tua pratica artistica racconti la diaspora africana e le lotte personali contro la marginalizzazione delle donne nere. In particolare, per esempio nei lavori esposti per Atlante Temporaneo, investighi la relazione fra donne nere e indumenti come calze e collant. Puoi dirmi di più rispetto la relazione fra indumenti e l’identità di chi li indossa? Come interagiscono tra di loro?
I lavori esposti per Atlante Temporaneo fanno parte della serie intitolata Nude Me / Under the Skin (Io nuda / sotto la pelle). Queste opere esplorano questioni come la cancellazione dell’identità, della razza e della sessualità dalla prospettiva delle donne nere attraverso la lente dei collant. Ripercorrendo la storia di questo indumento e di come le donne nere ci si sono relazionate emergono storie disturbanti.
La relazione tra i collant e le donne nere che lo indossano è stata dannosa per la loro psiche e salute mentale, in quanto questi indumenti pensati per un corpo bianco alteravano e sminuivano i loro corpi poiché non corrispondevano con la loro pigmentazione. In lavori come The Ascension of the Nude (L’ascensione del nudo) l’usura e le lacerazioni psichiche delle donne nere sono rappresentate nella struttura a lacci e collant bruciacchiata. Queste ferite sono rammendate dal punto a catenella ricamato a forma di vene in cotone o filo di metallo (noto per le sue proprietà curative). Far emergere ciò che soggiace alla superficie della pelle come vene e vasi sanguigni funge non solo da richiamo che noi umani siamo tutti uguali, ma anche come sorta di guarigione, dato che la guarigione viene sempre dal di dentro.
Uno dei motivi per cui lavoro con collant usati è che questi indumenti portano le storie di chi li ha usati. I vestiti che indossiamo assorbono la nostra energia e le nostre emozioni. Per esempio, le infermiere nere dell’epoca Windrush [NdT: l’epoca di Windrush è un periodo che va dal 1948 al 1971 che ha visto una forte emigrazione dai paesi del Commonwealth verso la Gran Bretagna, nonostante i migranti coprissero il fabbisogno di manodopera del paese non hanno mai ricevuto ufficialmente la cittadinanza inglese] hanno sofferto del razzismo sia nella vita quotidiana sia in quella professionale. Immaginate il dolore che hanno dovuto seppellire dentro se stesse per continuare a vivere in tale ambiente. La loro uniforme, che includeva collant color carne, ha assorbito quel dolore. Perciò per donne come loro, e per le loro storie, spesso rimaste nell’oblio, queste opere costituiscono una voce.
Fra gli elementi che influenzano la tua pratica di artista c’è la tua appartenenza alla tribù ghaniana degli Ewe, dove il ricamo è un importante parte della vita culturale e sociale. Quali altre forme d’arte ti influenzano? Chi o da dove attingi per l’ispirazione? Siano essi artisti visivi, performer, musicisti o designer.
Non direi che cucire è un’influenza è proprio parte di chi sono, è connaturata al mio DNA. Per la serie Nude Me invece ho tratto ispirazione dalla ricerca che conduco, come dalle sopraccitate storie biografiche delle infermiere nere del NHS che sono state una grande ispirazione per il mio lavoro. Le storie dei danzatori neri, invece, sono un’altra fonte che influenza la parte performativa del mio lavoro.
Più in generale diversi creativi mi ispirano, come Solange Knowles, Josephine Baker, Fela, Nina Simone, Melina Matsoukas, Alexander McQueen, Iris van Herpen e molti altri. Se dovessi citare degli artisti invece la lista sarebbe infinita. Partirei ovviamente con Senga Nengudi (che ho scoperto un anno dopo aver iniziato la serie Nude Me, la sincronicità dei temi mi ha fortemente colpito), Faith Ringgold, Sheila Hicks, Yinka Shonibare, Diedrick Brackens e Peju Alatise solo per fare alcuni nomi.
Credo che ciò che mi attrae di questi artisti è la loro autenticità, perché è ciò che cerco sia nella mia pratica artistica che nella mia vita di tutti i giorni.
Consideri l’arte come uno strumento di cura che si compie attraverso rituali e performance. Come funziona? Si realizza attraverso il fare arte, il cucire o performare?
La realizzo sia attraverso la mia pratica sia attraverso la performance. Ho sperimentato la guarigione e una crescita personale attraverso il lavoro, cercando di aiutare gli altri attraverso di esso. Credo veramente che ci sia un potere metafisico che il mio lavoro canalizza, soprattutto quando faccio con le mani. Con la performance, l’idea è di trasportare gli spettatori nel passato dove possono entrare in comunione con gli antenati, attraverso quest’esperienza ha luogo un risveglio spirituale che cambia gli spettatori e li fa uscire più illuminati.
La nozione di guarigione è alla base dell’intero processo, in quanto cerco di assicurarmi di realizzare il lavoro in modo consapevole – dal bruciare incenso mentre lavoro, all’impiegare tecniche di respirazione profonda e stretching all’inizio della mia giornata in studio, fino all’impostazione delle intenzioni prima di realizzare il lavoro. Nel 2020 ho anche iniziato a tenere workshop in cui la guarigione era al centro, mescolando meditazione, movimento e creazione per creare un’esperienza consapevole.
Sei anche tra le fondatrici del BBFA, il Black British Female Artist Collective. Quali sono le ultime iniziative che avete portato avanti?
Ho fondato il Collettivo nel 2015, all’epoca la situazione era notevolmente diversa, sentivo la necessità di creare un modo per permettere alle donne artiste nere di essere viste. Sono contenta che le artiste nere oggi siano più visibili, anche se c’è ancora molta strada da fare. Al momento come Collettivo non abbiamo progetti in cantiere e siamo attualmente occupate con le nostre carriere individuali. Ad ogni modo, mi piace pensare che molto del nostro successo attuale è dovuto ai nostri sforzi come Collettivo e che le opportunità che ne derivano ne sono il risultato.