La tua pittura si presenta estremamente matura. Caratterizzata da un linguaggio intimo e personale che accumula elementi e suggestioni come appunti su una sceneggiatura, poi messa in scena seguendo i ritmi di cromie e livelli pittorici sulla tela. Il tuo approccio in qualche modo si alimenta del tuo percorso formativo: gli studi in scenografia e disegno, l’attenzione al dettaglio simbolico ed espressivo proprio della moda e del teatro. Come si arriva a “maturare” un linguaggio così specifico come artista? Si sviluppa da sé o ci si può allenare? Pensi sia sempre stato qualcosa di innato della tua personale inclinazione e sensibilità creativa?
L’approdo ad un linguaggio personale è dato sicuramente da un percorso che parte da contaminazioni varie. Nel mio caso, avendo toccato vari mondi, dalla scenografia a quello della moda e illustrazione per l’infanzia, ho sempre sperato e tentato di inserire tutti questi aspetti all’interno della mia pratica. Ad esempio il mestiere proprio dello scenografo, così come originariamente inteso: mi piace pensarmi come il “trovarobe” per le mie composizioni. L’esperienza porta poi a trovare una sintesi involontaria ma gestibile di questi elementi, e quindi ad avere un linguaggio più o meno maturo. Per quanto mi riguarda, la mia pittura è cambiata drasticamente negli ultimi anni: prima era ancora molto acerba, aveva ancora degli scostamenti e una necessità ancora legata ad un’idea di figurazione fine a se stessa. Ad oggi posso dire che arrivo ad essere un pittore figurativo partendo in realtà da un percorso di astrazione: solo discostandomi dalla tela, leggendola da una certa distanza ho capito inaspettatamente che quella figurazione era in realtà il risultato di un processo astratto, di una sorta di mappatura e unione di livelli cromatici, materia, rimozioni e trasparenze. Questo è qualcosa che è potuto avvenire a Berlino con la possibilità di lavorare in uno studio molto grande. In quello spazio che si formava fra la tela che stavo dipingendo, e il posizionamento che decidevo di avere per la lettura dell’opera, lì ho trovato la pittura. È diventata una cosa quasi performativa: quel momento in cui poso il pennello e mi allontano, è stato qualcosa di totalmente nuovo, poi diventata fondamentale nel mio fare pittorico. Non so se tra un po’ di anni approderà ad un’idea ancora più astratta.
Una delle ultime occasioni di collaborazione, poco prima della pandemia, credo sia stata la tua esperienza di residenza a Los Angeles, che ti ha dato modo di attivare nuove opportunità negli Stati Uniti. L’ultima è la collettiva nella galleria Andrew Kreps di New York. In che modo pensi che questa esperienza americana abbia influito sul tuo linguaggio artistico, oltre alle eventuali possibilità future di influire sui prossimi sviluppi della tua carriera?
Da europeo avendo avuto l’opportunità di lavorare oltreoceano, ti porti dietro tutto un tuo bagaglio culturale importante, che si presenta inevitabilmente ed emerge soprattutto nel confronto con altre culture e scenari, come quelli americani. Sicuramente mi è servita per uscire dalla comfort zone, e poi soprattutto ritrovarmi nelle atmosfere di uno dei miei film preferiti, Non è un paese per vecchi (No Country for Old Men è un film del 2007 scritto e diretto da Joel ed Ethan Coen, ndr). Nel film si percepisce una sorta di disagio e claustrofobia dei motel abbandonati tra California e New Mexico: più o meno le stesse che talvolta si ritrovano anche nelle mie opere. E non a caso uno dei miei ultimi lavori si chiama Sweet baby motel. Questa esperienza mi ha permesso certamente di aggiungere degli elementi, rispetto anche a dei preconcetti che avevo, e unirli a degli altri elementi che avevo lasciato in sospeso. Per esempio prima di partire volevo creare una serie, perché la serie mi aiuta nell’idea di narrazione, e così è nata la serie di pitture Americana. Tutto quello scintillio e i colori fluo in giro per la città sono in realtà elementi molto distanti da quella malinconia che attraversa invece le mie opere, molto più europea e nordica. Ma proprio per questo è stata un’altra contaminazione che ha dato vita a un mix strano, ma potente, di elementi che si sono in realtà presentati più al ritorno nelle opere che ho realizzato in seguito.
Questo genere di pittura figurativa con toni accesi e vivaci proviene dagli Stati Uniti, e oggi gode di una certa fortuna. Una tendenza che la tua pratica artistica si trova in parte ad incontrare sia a livello formale, che di scelta di colori e soggetti. Eppure si intuisce una profondità emotiva ed espressiva del tutto peculiare. Forse, come dicevi, propriamente europea. I contorni dei tuoi soggetti, per esempio, spesso esplodono in funzione di movimenti esteriori e soprattutto interiori. In questo senso, la tua figurazione rifiuta di essere del tutto esplicita, presentando una profondità “drammatica”, nel tuo mettere in scena le emozioni universali umane. In che modo pensi che il tuo linguaggio si distingua da quello di altri tuoi colleghi americani?
Io non ho studiato pittura: è venuta a me ed è stata un’esigenza, ma vengo dal disegno e dal teatro. Io non potrei mai scindere le cose, negare il mio variegato bagaglio culturale, e le storie e suggestioni che si porta dietro. È vero che la pittura figurativa oggi va molto. Io l’ho sempre fatta, a diversi livelli. Ma a me non interessa il genere ad esempio. La mia figurazione forse funziona anche perché paradossalmente arriva da un’astrazione. La mia è una narrazione intesa come tempo e come spazio, e ha proprio per questo una universalità di soggetti e vicende. Uno spazio di competenza dove succede qualcosa. Il fatto di non avere una riconducibilità, ma avendo dei livelli non solo tecnici, ma soprattutto di lettura, fa si che utilizzo il medium della pittura, ma attenendosi anche a degli aspetti esplicitamente legati ad altri media come addirittura la performance, il balletto. Queste rappresentazioni, queste scene, appartengono più ad un modo europeo, che d’oltreoceano.
Quasi tutti i tuoi lavori sembrano essere attraversate da un langueur, un velo di malinconia. Più volte nelle tue interviste hai accennato ad uno stato di nostalgia. Si tratta però di un tipo di nostalgia più vicina a quella di sensibilità artistico-letterarie sviluppatisi in momenti altrettanto di rottura e crisi dei modelli culturali precedenti, come ad esempio il Romanticismo o Decadentismo con la loro nostalgia per i classici e le rovine, per una perfezione passata e perduta. Di che tipo di nostalgia parlano le tue opere? Si rivolgono più ad un mondo esteriore o interiore? In che modo si relazionano con il nostro tempo, o sono una reazione e fuga da esso?
Io credo che la mia pittura sia in qualche modo fuori tempo. Una nostalgia che a volte suona cacofonica in certi aspetti, ma lo è volontariamente e consapevolmente, per questo vi subentrano elementi cromatici come i colori acidi e un dismorfismo strutturale. È comunque una nostalgia perfettamente inserita in un momento storico come adesso, in cui è richiesta una velocità che la pittura non può avere. È una nostalgia che parla di una difficoltà di relazionarsi reciprocamente. La mia pittura è una sorta di matrioska, dove c’è lo spazio, c’è il corpo e poi c’è di nuovo il corpo con lo spazio. Spesso questi sconfinano, uno è troppo grande o troppo piccolo per l’altro, negando un reale dialogo fra i due. Di base, sono impregnati di una melinconia, che è lo stadio prima della malanconia, in cui non è ancora uno stato patologico ma appartiene a tutti, ed è appartenuto a molti in questo momento. Paradossalmente con la pandemia ne abbiamo colto degli aspetti anche utili, come momento necessario di riflessione e confronto con se stessi. È in questo senso una nostalgia anche rispetto alla cura delle cose, e a noi stessi, che non vi è più. Non dico che si stava meglio prima – perché si stava meglio prima di cosa? Di chi? Di quando? Però penso che il fatto di posizionarsi a lato delle cose, sia un motivo per osservarle in maniera diversa, non dico più profonda, ma più sentita e attenta. Citando Marguerite Yourcenar, Come l’Acqua che scorre, 1982: “Strana condizione è quella dell’intera esistenza, in cui tutto fluisce come l’acqua che scorre, ma in cui, soli, i fatti che hanno contato, invece di depositarsi sul fondo, emergono alla superficie e raggiungono con noi il mare.”