Intervista a Isabelle Wenzel

Cadrages #1 — Giugno 2023

Mi sono allungata in avanti. Mi sono sentita pesante. Sono stata sopraffatta dalle scelte. Mi sono persa. Sono inciampata. Ho fallito. Ho ricominciato. Sono uno spazio nel paesaggio. Una formazione geologica. Una forma botanica. Un’isola di isolamento.  Un corpo pensante. Guardatemi al rallentatore. Guardatemi congelata nel tempo.

Isabelle Wenzel

Isabelle Wenzel mi accoglie dalla sua casa di Wuppertal, in Germania. Ci incontriamo su Zoom, e finalmente vedo la sua faccia: di solito è a testa in giù e ha il viso nascosto nelle pose che assume per le sue fotografie.  Alle sue spalle campeggiano due interessanti opere. Mi chiedo chi sia l’autore di questi quadri appesi al muro.

 

Isabelle, tu sei un’artista poliedrica, metti insieme danza, performance, scultura e fotografia. Come sei arrivata a questo processo creativo? Qual è stato il tuo percorso formativo?

Direi che ha a che fare soprattutto con la mia formazione, perché prima di dedicarmi all’arte e alla fotografia mi sono formata come acrobata. Mia madre era una ballerina di teatro e mio padre uno sportivo. Fin da piccola sognavo di esibirmi in un circo. Così i miei genitori hanno cercato qualcuno che potesse formarmi e hanno trovato una scuola di circo con un acrobata russo che mi ha allenato per diversi anni. Avevo sei anni quando ho iniziato; ho continuato fino ai miei 14 anni. Poi i miei genitori si sono trasferiti a Monaco per lavoro, abbiamo lasciato la Germania occidentale e siamo andati al sud. A Monaco ho continuato ad allenarmi regolarmente, da sola, e poi anche con un altro acrobata, che trascorreva lì le vacanze invernali.

Grazie a questo allenatore, vedendo quanto fosse difficile per lui destreggiarsi tra l’allenamento, la moglie e i figli, mi sono resa conto che la vita di un acrobata può essere molto dura, e che a volte ci si sente anche molto soli. È un lavoro piuttosto instabile. E così ho cominciato a dubitare di volerlo fare. Avevo 14 anni, ho iniziato a praticare sport divertenti.

 

Che tipo di sport?

Tutti, ma alla fine mi sono dedicata allo skateboard e l’ho fatto per molto tempo. Sono diventata una professionista e ho partecipato alla Coppa del Mondo e ad altre gare. Sfortunatamente quando avevo circa 20 anni mi sono rotta il ginocchio. Ho avuto bisogno di un paio di operazioni, era chiaro che non mi sarei potuta muovere per un po’ di tempo. Ero ancora giovane e ho pensato di dedicarmi ad altro. 

In quel periodo siamo tornati a Ovest con la mia famiglia, così ho fatto domanda all’Università di scienze applicate di Beloften, con l’idea di studiare Design. Quando hanno visto il mio portfolio mi hanno detto che avevo un buon occhio, mi hanno consigliato di fare Fotografia. Ho cominciato così: tutto ciò che mi interessava era fotografare persone e corpi.

All’inizio dei miei studi ho coinvolto molte persone che conoscevo. Ero interessata anche ai nudi, ma mi rendevo conto che c’era sempre qualcosa che non mi convinceva. Ed è lì che ho pensato “ok, ho un’idea abbastanza chiara in mente, so che foto voglio realizzare”, ma avevo sempre la sensazione che quell’immagine non corrispondesse a quella che gli altri volevano di sé. In qualche modo sentivo di tradirli, perché stavo proiettando la mia idea sul loro corpo e magari a loro non piaceva.

 

Come se li stessi usando.

Sì, esattamente. Non amo questo gioco di potere in cui tu sei il fotografo e devi dirigere la modella, ma nella fotografia è un’idea molto classica. Tu sei il fotografo, sei al comando, dici alla modella cosa fare; la modella non ha nulla da dire e si limita a seguire le tue indicazioni. Ho capito che non mi piaceva, così ho iniziato a riprendere solo me stessa.

 

Quando è successo? Come hai scoperto che ti piaceva posare per te stessa?

All’inizio non ne ero davvero consapevole, facevo degli autoritratti di tanto in tanto e mi piacevano molto. Così ho continuato, ma ero sempre in dubbio su cosa significasse davvero, mi chiedevo se non fosse un atto narcisistico. Ero molto giovane, con un corpo ancora in forma, forse mi piaceva solo guardarmi? Poi ho capito che non mi interessava lavorare per i brand o su commissione. Così ho deciso di andare ad Amsterdam per studiare Belle Arti alla Gerrit Rietveld Academie. Ho frequentato il dipartimento di Fotografia, ma essendo una scuola di belle arti, la visione della fotografia era molto diversa. Credo che tutto sia cominciato lì, grazie ai miei insegnanti, che non erano interessati alle immagini belle, quanto piuttosto a questioni come: “Chi sei? Qual è il tuo background? E dov’è la tua passione?”. Nel mio caso, la mia passione era il movimento, era evidente. In quel periodo fotografavo me stessa e molti amici, che si sentivano a proprio agio con le mie immagini. E credo che uno dei miei insegnanti mi abbia detto “Non so dire perché ma i tuoi autoritratti hanno qualcosa di speciale”.

 

Ha visto qualcosa confrontando i tuoi autoritratti con le foto che facevi ai tuoi amici?

Sì, esattamente. Credo che a quel tempo avessi già intuito che usavo il corpo come una scultura, che la mia ricerca aveva a che fare con la possibilità di dare forma a qualcosa con il corpo. Continuavo a pensare molto alla questione della “posizione di potere” e a come la stavo affrontando e credo di aver deciso di smettere di immortalare altre persone subito dopo la laurea. Ho sempre avuto come riferimento gli artisti che vanno nel loro studio, prendono i colori e iniziano a lavorare. Perché non potevo farlo anche io? Quando l’ho realizzato, mi sono sentita più artista che fotografa, e da quel momento ho fotografato solo me stessa, credo per circa dieci anni. Poi, a un certo punto, mi sono detta: “Ok, ora sono sempre da sola. Ho bisogno di altre persone nella mia vita”.

 

E che cosa hai fatto? Come hai cambiato la situazione?

Grazie a un servizio di moda. Ero in giro per un editoriale, credo sia stato uno dei primi, e non ero nemmeno troppo sicura della mia posizione come artista. Cosa significa usare il mio corpo, il mio linguaggio artistico per la moda? All’inizio ero dubbiosa, ma poi ho pensato che forse potevo trarne beneficio. Per esempio chiedendo a dei ballerini di fare quello che facevo io davanti alla macchina fotografica. Questo mi dà la possibilità di lavorare con professionisti allenati che usano il loro corpo come una forma da modellare, diciamo. Ho scoperto che questa combinazione è perfetta: lavorare con persone che hanno la stessa concezione del corpo, che è una materia per esprimere le proprie idee. Da allora ho iniziato a mescolare le cose, ma per il 90% sono sempre io, il restante 10% sono altre persone.

 

Ho trovato interessante quello che hai detto sul potere. Il potere sulle persone, il potere della fotografia, il potere di scattare immagini, il potere di dirigere qualcun altro. Hai raccontato che a un certo punto hai deciso di usarlo per i suoi autoritratti, scegliendo di dirigere te stessa nel corso di oltre dieci anni. È stato un periodo di grande sperimentazione, perché hai dovuto metterti alla prova, anche fisicamente, creando le tue sculture. Quando hai preso coscienza del potere della tua performance fisica e del tuo sguardo.

Quando ho capito che in realtà non è la macchina fotografica o il fotografo a comandare. Ho realizzato che chi comanda è la persona che sta davanti all’obiettivo, perché può controllare l’immagine che sta generando. Oggi, con i social media, è pieno di persone che hanno le idee molto chiare su come vogliono apparire, ma quando ho iniziato i social media non esistevano ancora. Penso spesso a quello che diceva Roland Barthes, che la cosa strana della fotografia è che si trasforma qualcosa in un’immagine prima che l’immagine sia stata scattata. Ho capito che tutto questo contiene un gioco molto interessante: da un lato sono il fotografo, quello che guarda, e dall’altro sono anche quello che sta davanti all’obiettivo, che dà la sua visione agli altri. Mentre creo sono super solitaria, solo io e la macchina fotografica, ma poi sai che arriverà il pubblico: le tue immagini verranno pubblicate e un momento molto privato diventerà pubblico. A volte dimentico che migliaia di persone lo vedranno.

 

Questo è il punto: il potere di guardare qualcosa e scattare un’immagine, e una volta che l’immagine esiste appartiene al mondo.

Non guardare la macchina fotografica mentre si lavora significa anche perdere il potere. Il mio processo creativo si basa molto sull’apprendimento empirico, e spesso non ho idea di quello che sto facendo. Premo l’otturatore, corro e faccio qualcosa, poi guardo lo schermo e reagisco. Quindi si tratta di essere al comando, ma anche di non esserlo. È sempre una via di mezzo.

 

Hai il controllo, ma non completamente. Anche perché usi lo spazio temporale dell’autoscatto per creare le tue sculture, per diventare la tua opera d’arte. Ciò che la macchina fotografica riprende è qualcosa di inaspettato. Le sculture umane che crei sono una critica all’oggettivazione del corpo femminile?

Certo, ma come artista non ho la presunzione di dire “guardate, c’è qualcosa di sbagliato”. Riconosco piuttosto certe attitudini nel nostro modo, come società, di guardare ai corpi, ai generi, e soprattutto ai corpi femminili sui media. Il mio lavoro mi permette di rapportarmi alla questione, anche perché non sono un tipo molto femminile. Ho avuto l’urgenza di fare qualcosa di molto grottesco per comprendere queste strutture sociali, questo gioco dei ruoli e di interrogarmi su cosa sia il genere. In alcuni progetti ho parlato chiaramente del corpo femminile e di come viene guardato, di come è sempre stato considerato un oggetto. Ho cercato di trasformarlo in qualcosa di paradossale, che sia un tavolo o una sedia o altro, evidenziando l’assurdità del processo. In altri lavori cerco semplicemente di parlare del corpo umano, della gravità, della forma, che è anche ciò che ci distingue dalle altre persone. Nella mia ricerca c’è anche un tentativo di riconoscere i limiti di ciò che si può fare in quanto artista donna, perché non appena si fa qualcosa con il proprio corpo si parla immediatamente di corpo femminile, ma non del corpo umano in generale. Questo è un terreno in cui sto ancora cercando di trovare un equilibrio. In alcuni progetti ero interessata unicamente alla forma femminile, ma più in generale sono affascinata dalla nostra struttura fisica come esseri umani nel mondo. È piuttosto forte per un’artista donna puntare su questo.

 

Trovo questo modo di guardare il corpo affascinante perché in molte fotografie la testa scompare completamente, a volte in un secchio o in qualcosa di simile, e parlando di gravità mi sono chiesta “Come poteva mantenere quel tipo di posizione, scomparendo completamente?”.

C’è un equilibrio perfetto ma anche un incredibile senso di pericolo. E non si tratta solo della magia della macchina fotografica, sono molto sorpresa dalle capacità del tuo corpo. Il tuo lavoro sembra determinare anche la sua routine di vita. Continui ad allenarti ogni giorno? I- Beh, mi piacerebbe avere più tempo per allenarmi, ma dato che sono molto impegnata con l’editing, la comunicazione e tutte le cose che devo fare, non riesco a farlo tutti i giorni.

 

Lavori da sola o c’è qualcuno che lavora con te?

A un certo punto non riuscivo a stare dietro a tutto, soprattutto quando la moda è entrata nella mia vita, le produzioni e le mostre sono diventate sempre più numerose. Sono molto fortunata perché il mio compagno Michel ha iniziato a dedicarsi completamente ai miei progetti. Conosce perfettamente il mio lavoro, fin dai miei primi studi, stiamo insieme da più di vent’anni.

 

Beh, sembra molto romantico!

Sì, lo è. È il mio primo amore. E anche l’ultimo! Nella moda devi essere molto veloce. Quando fai degli editoriali, devi realizzare circa 17 look al giorno, e farlo da sola era impossibile. È stato allora che è entrato in gioco il mio partner. Ho detto: “Ok, io faccio quello che faccio sempre, e tu scatti”. E attraverso questo processo ho capito che non sono solo un’artista e una fotografa, posso anche essere una performer, e cedere completamente il controllo, dire “tu scatta le foto, io creo l’immagine”. Poi, in un secondo momento, mi occupo dell’editing, e questa è ancora la parte che gestisco completamente da sola perché ho davvero bisogno di questo processo. All’improvviso sono diventata anche una regista del movimento, mi metto accanto al mio compagno e parlo tutto il tempo con la persona davanti alla macchina fotografica, e a volte mi muovo per far vedere ai modelli quello che potrebbero fare. Non so perché ma spesso penso che il mio corpo sia più buffo di altri. Forse per via del mio background acrobatico. Adoro Buster Keaton, è il mio grande eroe. E questo incide sul modo in cui mi alleno, credo che il mio allenamento consista proprio nell’esibirmi davanti alla macchina fotografica, cercando di fare foto almeno 2/3 volte a settimana. Dopo mi sento sempre bene, come se avessi fatto yoga tutto il giorno. Sono in sintonia con me stessa e sono super rilassata. Mi sento molto in forma.

 

Infatti sei in gran forma. Hai detto che lavori molto con la moda, si tratta di lavori commissionati per riviste ed editoriali o anche campagne?

All’inizio ovviamente non sapevo nulla di moda e non ne so ancora granché, ma posso dire che l’industria della moda è molto interessata all’approccio artistico, quindi mi dà grande libertà. All’inizio ero in difficoltà, ma ora riconosco due campi della creatività che possono trarre vantaggio l’uno dall’altro, e per me è un processo molto interessante perché quando vedo per la prima volta un capo o un abito in un lookbook non riesco mai a immaginarlo in foto. Ho bisogno di indossarlo per rendermi conto di come ci si può muovere e di come l’indumento si muove con te. Questo è fondamentale per la mia creatività, perché devo lavorare molto con l’improvvisazione. È come un gioco: prendi questa cosa e cerchi di capire come puoi farla muovere. Tutto ciò che ha a che fare col movimento diventa immobile.

 

Vivi a Wuppertal, la patria di Pina Bausch. Anche tua madre era una ballerina. Pensi che questo ti abbia influenzata come interprete e artista?

Fin da piccola, mia madre mi portava a vedere gli spettacoli di Pina Bausch, quindi conoscevo il suo lavoro, ma credo che all’epoca non ne fossi consapevole. Penso che sia successo dopo, quando hanno cominciato a farmelo notare. Però da 5/6 anni mi sento molto legata alla danza, ora le connessioni sono chiare. Quando incontro dei ballerini – io e il mio compagno abbiamo molti amici che sono ballerini e amiamo lavorare con loro – sento che abbiamo la stessa mentalità, la stessa maniera di stare al mondo, dal nostro rapporto col corpo a come lo usiamo per esprimerci. È stato rigenerante per me riconoscere che ci sono persone che la pensano come me. In ambito artistico si incontrano persone che hanno la stessa mentalità ma non necessariamente lo stesso metodo di lavoro, mentre con i danzatori seguiamo gli stessi sentieri per ottenere dei risultati. Il corpo è sempre al centro.

 

Per quanto riguarda la “inconsapevolezza” che hai menzionato, c’è sempre qualcosa dell’infanzia che, a un certo punto, può emergere, come un’antica memoria.

È qualcosa che si ci portiamo dietro, che è dentro di noi e non ne siamo consapevoli.

 

Cosa ci dici delle tue mostre? C’è qualche progetto a cui stai lavorando?
C’è una mostra virtuale in corso, Ansitzen and weitblicken, alla Stadtsparkasse Wuppertal, una delle principali banche tedesche. Poi ci sono altre cose di cui non posso ancora parlare. Una mostra dovrebbe essere a Malta, data e luogo da stabilire; un’altra a Londra, e poi c’è una mostra che verrà inaugurata il 7 giugno a Milano, curata da C41 in un nuovo spazio nel quartiere Bicocca che si chiama BIM. È un grande complesso che un tempo ospitava uffici. Per l’inaugurazione sto preparando una performance.

 

A parte Buster Keaton, ci sono altri artisti che ti piacciono?

Sì, naturalmente ce ne sono molti. Uno di questi è Tino Sehgal, un grande artista, se vi piacciono le performance è è un’esperienza da fare. E poi mi piace la Gaga dance, un nuovo tipo di danza di un coreografo israeliano. Se vai a una lezione di Gaga non ci sono specchi, come accade di solito: tutto è incentrato sull’unicità del corpo di ognuno e su quali movimenti sono naturali per ognuno. Non è per ballerini professionisti, è per tutti. Ho fatto un paio di workshop e l’ho trovata molto liberatoria. La Gaga dance è più incentrata sulla pratica giusta per il corpo di ognuno, e credo che questo sia il mio modo di lavorare, cerco solo di capire come esprimermi attraverso il corpo.

 

Chi è l’autore delle opere alle tue spalle?

Sono dei miei figli, mio figlio ha 5 anni; mia figlia ne ha 10. È molto creativa. Dice di voler diventare una stilista, ma anche una performer.

 

PHOTO CREDIT

AII images: courtesy lsabelle Wenzel © VG Bild-Kunst, Bonn 2023

Tiger, 2022
Matt Fine Art Print 230g Framed 40×50 cm Edition of 5 plus 2AP

Rosie and me 1, 2022
Matt Fine Art Print 230g Framed 40×50 cm Edition 5 plus 2AP

Point of view 1, 2023
Matt Fine Art Print 230g Framed 40×50 cm Edition 5 plus 2AP

Bending 2, 2020
Matt Fine Art Print 230g 90x120cm Edition of 5 plus 2AP

Gone, 2021
Matt Fine Art Print 230g Framed 40×50 cm Edition 5 plus 2AP

Chiara 2, 2022
Matt Fine Art Print 230g, Edition of 5 plus 2AP 90x120cm

Anna 1, 2022
Edition of 5 plus 2AP 90x120cm Matt Fine Art Print 230g

1R, 2022
Matt Fine Art Print 230g Framed 40×50 cm Edition 5 plus 2AP

Painting 1.6, 2016
Matt Fine Art Print 230g Framed 40×50 cm Edition of 5 plus 2AP

Marta 1, 2020
Matt Fine Art Print 230g Framed 40×50 cm Edition 5 plus 2AP

Replica 2.3, 2016
Matt Fine Art Print 230g Edition of 20 Plus 2AP

Wall 1, 2023
Matt Fine Art Print 230g Framed 40×50 cm Edition 5 plus 2AP

H1, 2019
Matt Fine Art Print 230g Framed 40×50 cm Edition 5 plus 2A

Automatic 1, 2022
Matt Fine Art Print 230g Framed 40×50 cm Edition 5 plus 2AP

Hide2, 2020
Matt Fine Art Print 230g Framed 40×50 cm Edition of 5 plus 2AP

M2, 2021
Matt Fine Art Print 230g Framed 40×60 cm Edition 5 plus 2AP

Fall, 2022
Matt Fine Art Print 230g Framed 40×50 cm Edition of 5 plus 2AP

BIOGRAFIA

Isabelle Wenzel (Germania, 1982) ha studiato per diventare fotografa/artista, ma è anche un'acrobata esperta. È solita immortalare il proprio corpo con la macchina fotografica. Nei secondi che l'autoscatto le concede, assume una posizione impossibile e cerca di mantenerla finché non sente lo scatto. Al centro della sua ricerca c’è il corpo come forma fisica, più che le persone in quanto tali. Attraverso la fotografia, l'artista congela una posa nel tempo e si concentra sulle qualità scultoree del corpo. Per ottenere una certa immagine, deve eseguire le posizioni ripetutamente, in una specie di piccola performance sperimentale davanti alla macchina fotografica, che la cattura per noi nella forma 'congelata' di una fotografia.

Isabelle Wenzel

BIOGRAFIA

Isabelle Wenzel (Germania, 1982) ha studiato per diventare fotografa/artista, ma è anche un'acrobata esperta. È solita immortalare il proprio corpo con la macchina fotografica. Nei secondi che l'autoscatto le concede, assume una posizione impossibile e cerca di mantenerla finché non sente lo scatto. Al centro della sua ricerca c’è il corpo come forma fisica, più che le persone in quanto tali. Attraverso la fotografia, l'artista congela una posa nel tempo e si concentra sulle qualità scultoree del corpo. Per ottenere una certa immagine, deve eseguire le posizioni ripetutamente, in una specie di piccola performance sperimentale davanti alla macchina fotografica, che la cattura per noi nella forma 'congelata' di una fotografia.

Isabelle Wenzel

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