Oscar Giaconia

Gennaio 2024

Oscar Giaconia crea con le sue opere un compost immaginario dove ritrae ossessioni mentali, biologie sintetiche e mutazioni alchemiche per condurci attraverso i meandri linguistici del mostruoso e del caricaturale, della metamorfosi e delle identità.

Abbiamo scambiato alcuni spunti di riflessione a partire dalle sue figure, sospese ed ermetiche, esposte presso Fondazione Coppola di Vicenza fino al 24 gennaio.

La mostra The Kitbasher presso Fondazione Coppola si inerpica per otto gironi attraverso le strette scale che portano dagli ambienti bui dei piani bassi fino alla bussola del Torrione che dall’alto dei suoi 40 metri domina la città di Vicenza. Che criterio hai seguito nella distribuzione e selezione dei lavori in un contesto così connotato?

Ho sempre subito una fascinazione occulta per la morfologia di luoghi e architetture corazzate e fortificate. Bunker, cripte, taverne, grotte casearie, celle e cantine fanno parte di quella dimensione ipogea che chiamo ossessione ossidionale.
Mi domando, parafrasando Derrida, se non ho che un’immagine, e non è la mia, e se alcune di esse possano avere un bisogno congenito di una sedia o di una dimora. Mi si potrebbe domandare cosa possa centrare. La risposta è da snidare nel termine ossidionale, una parola scivolosa e ambigua. Da una parte deriva da “obsidere”, ovvero tenere il campo, stare seduto davanti, dall’altra emergono questioni relative all’assedio e all’ossessione attiva e passiva che ne deriva.
In biologia ha una valenza biforcuta, direbbe il filosofo Vincenzo Cuomo “vischiosa”, tra invasore e invaso, ad opera di organismi, specialmente vegetali, che si introducono in un ecosistema a seguito di una campagna militare.
Non ho adottato nessun criterio preciso se non quello di colonizzare la torre e le opere-documento in esso contenute secondo una modalità contorta e attorcigliata; più che un torrione, una colonna tortile
La torre diventa così l’abitacolo per la pratica di un sadico che non fa altro che costruire tronchi umani. Pratica che subisco a partire da un’ascesa dal basso, quasi fosse la perdita di un tubo di scarico, un carotaggio invertito. Se si riempisse una fossa marina a mo’ di calco, emergerebbe un termitaio.

Fra neologismi, onomatopee e glossolalia, mi colpiscono i titoli che dai alle opere: CALABIYAU, KITBASHER, GINNUNGAGAP, AYE-AYE, HOYSTERIA, solo per citarne alcuni. Mantengono un misto di esotismo e di mistero. Che genealogia hanno e che relazione ha la parola con l’immagine per te?

Si danno nomi solo per difendersene. Ogni parola è un polimero, una lamella mutaforma. È come una stringa d’informazioni associabile al grado d’organizzazione di un determinato materiale. Mi avvalgo di questa organizzazione per farla basculare e debordare con tutto ciò che la può inquinare e disorganizzare.
“La parola scritta è già un’immagine”, afferma William Burroughs: titoli e denominazioni varie sono utilizzati come giochi e gioghi, indescrivibili nomi anomici fatti di amputazioni, trapianti, scuciture, innesti e spurghi. Ogni titolo è una sintesi bruciante di stigma e sinthomi comportamentali che incarno e compulso attraverso il mio agire-patire.

La membrana che custodisce le opere, e che funge da diaframma tra mondo reale e opera, riveste una peculiare importanza nel tuo lavoro. Fra i vari tipi di supporti usi leghe di polietileni e silicone, salpa ai leganti proteici, neoprene, nylon. Sembrano divenire parte integrante dell’opera e non un mero contenitore. Che valore hanno per te queste teche, soglia fra opera e spettatori?

L’opera è un suddito complice del proprio supplizio. Ogni opera ed operazione annessa diventano il subiectum della sperimentazione dei propri materiali. Esiste un’assurda continuità e complicità tra quella che polarizziamo come sostanze organiche ed inorganiche, distinte metafisicamente come vive o morte. L’abiogenesi è l’idea secondo cui la vita stessa si possa essere generata da composti chimici non biologici.
Metto in scena una vera e propria biologia sintetica: nascite come test, campioni, prelievi, provini. Una danza macabra di polimeri ibridi, circolazione di stati di materia mobile, per assecondarne, sulla scorta di un immaginario in decomposizione, gli imprevedibili decorsi vermicolari. Il decadimento di queste sostanze viene ostinatamente e giocosamente mantenuto in vita. Sopravvive sfocando in altre sostanze.

“Quando l’immagine non parla più inizia a girare a vuoto”, affermi, in un fenomeno analogo a quello che in psicologia cognitiva si definisce saturazione semantica, ovvero quando si ripete una parola molte volte e si causa lo scollamento dal suo significato la si trasforma in puro suono. Con le figure, chiaramente, bisogna impiegare stratagemmi diversi; nel tuo caso la figura è un’esca, è un’àncora, come tu stesso affermi, dove un gioco degli equivoci nega narrazioni e simbolismi. Ricusare narrazioni e simboli è il tuo modo per non girare più a vuoto?

Il segno è condannato a “dire” altri segni. Non esiste un segno che sia sorgente del medesimo. In definitiva non può essere un testimone attendibile. Restano solo quelle tracce giunte per cancellazioni e rifacimenti, rovine di cui le immagini sono le eredi dirette. È un percorso apofatico e contro-tecnico, dove si impugna il linguaggio solo per disfarsene. Un linguaggio del sabotaggio.
Fabbrico un fantomatico kit di assemblaggio per una cieca macchina da guerra-macchina pittorica. Ne seguo arbitrariamente le indicazioni di montaggio solo per arrivare alla conclusione che il sistema macchinico messo in moto non funziona. Questa disfunzione non solo interrompe il funzionamento del circuito, ma ingenera un nuovo schema d’intrusione: il forte desiderio di ripristinarlo secondo una logica differita e disgiuntiva.

Le carte che usi sono un “supporto-sudario” come tu stesso le definisci. Su di loro processi biologici e tecnologie artificiali svolgono la loro azione come a (ri)produrre immagini in cattività. C’è in effetti un quid alchemico che connota la tua opera ma ci vedo anche un legame con l’abietto per come lo teorizza Julia Kristeva; ovvero quelle parti espulse dal corpo che marcano la divisione tra interno ed esterno, tra l’io e il non-io, per isolare e allontanare gli elementi che minacciano le identità convenzionali e l’ordine del sistema culturale. Ti interessa in qualche modo questa relazione tra l’abietto, la catarsi che ne deriva e la trasformazione alchemica?

L’abiezione è una passione-pulsione che convive indistricabilmente con la propria nemesi, l’apocatastasi. Nella teologia cristiana indicava il ripristino e il restauro a partire da uno stato di cose immondo, primitivo e informe.
Mistica, mestica, masticazione e mnestica sono allacciate fra loro attraverso quella che vedo come un’ascesi della chiusura. Più un’opera è chiusa e ripiegata all’interno più è sottoposta ad una macellazione e ad un massacro dall’esterno.
Le materie sono sottoposte a trattamenti che mirano all’espropriazione delle rispettive proprietà (allodoxia): la carta diventa cartilagine, la pelle un polimero, un silicone una membrana, la cera una gomma, l’olio una gelatina, un foglio di pellicola paraffinata una carta moschicida, l’impasto di una preparazione sul suo supporto, una melma policefala; una sostanza che agisce come traccia e memoria di forma del suo passato, costruzione di condizioni funzionali alla propria esperienza.
Quando si è alle prese con il trattamento di un nuovo materiale ciò che ne determina il comportamento non ha a che vedere necessariamente con la sua struttura (bulk) ma con quello che accade sulla sua superficie. Il mostro è la pelle, il mostro è la superficie.
Si passa così dall’ordigno della composizione al compost di materie cospiranti, morbosamente morbide in una grande fossa comune.

PHOTO CREDITS

Oscar Giaconia, THE KITBASHER, veduta installativa presso Fondazione Coppola, Vicenza. ph. David Sarappa

Oscar Giaconia, THE KITBASHER, 2019, olio su fibra cellulosica alla gelatina plasticizzata in teca di salpa e silicone. Collezione privata ph. Roberto Ferro

Oscar Giaconia, THE KITBASHER, 2020, olio su fibra cellulosica alla gelatina plasticizzata in teca di salpa e silicone. ph. Roberto Ferro

Oscar Giaconia, THE GRINDER, 2019, olio su fibra cellulosica alla gelatina plasticizzata e colla animale in teca di nylon. Collezione privata ph. Roberto Ferro

BIOGRAFIA

Avvalendosi prevalentemente della pittura, intesa come pratica digestiva di altri linguaggi, il lavoro di Oscar Giaconia si satellizza intorno a molteplici aree di ricerca: i concetti di mostro, controfigura, autopsia e parassita sono solo alcune delle parole chiave, (reversibili alle qualità trasformative del media pittorico), che accompagnano da sempre la ricerca stratificata dell’artista, caratterizzata anche dall’utilizzo di dispositivi in-organici e sintetici quali teche di silicone, vulcanite, nylon, gomma para e neoprene. Tra le mostre personali: Parasite Soufflé, Monitor Gallery, Roma 2023; Cryptozoogodemichet, Monitor Gallery, Lisbona, 2021; Hoysteria, GAMeC Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Bergamo, 2019; Wunderkammer N. 1 | Overman, Thomas Brambilla Gallery, Bergamo, 2017; GREEN ROOM Baco Arte Contemporanea, Bergamo 2026; e le collettive Eretici. Arte e vita presso Mart, Rovereto, 2022; Danae Revisited, Fondazione Francesco Fabbri, 2021.

BIOGRAFIA

Avvalendosi prevalentemente della pittura, intesa come pratica digestiva di altri linguaggi, il lavoro di Oscar Giaconia si satellizza intorno a molteplici aree di ricerca: i concetti di mostro, controfigura, autopsia e parassita sono solo alcune delle parole chiave, (reversibili alle qualità trasformative del media pittorico), che accompagnano da sempre la ricerca stratificata dell’artista, caratterizzata anche dall’utilizzo di dispositivi in-organici e sintetici quali teche di silicone, vulcanite, nylon, gomma para e neoprene. Tra le mostre personali: Parasite Soufflé, Monitor Gallery, Roma 2023; Cryptozoogodemichet, Monitor Gallery, Lisbona, 2021; Hoysteria, GAMeC Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Bergamo, 2019; Wunderkammer N. 1 | Overman, Thomas Brambilla Gallery, Bergamo, 2017; GREEN ROOM Baco Arte Contemporanea, Bergamo 2026; e le collettive Eretici. Arte e vita presso Mart, Rovereto, 2022; Danae Revisited, Fondazione Francesco Fabbri, 2021.

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