JR in dialogo con Elisa Carollo
JR, hai costruito la carriera sull’’adottare l’approccio guerrilla della street art alla fotografia, affrontando temi di rilevanza e attualità nella societ odierna, e portandoli all’attenzione del pubblico. Creando potenti dichiarazioni visive spesso in luoghi remoti o non convenzionali, hai ti sei confrontato sia il luogo pubblico che l’opinione pubblica allo stesso tempo su questioni sensibili del nostro tempo, operando su una singolare intersezione tra il sistema dell’arte contemporanea, la politica e l’attivismo.
Una domanda sorge spontanea: Che tipo di ruolo crede che l’arte possa e debba avere nel confronto con il mondo di oggi? Che tipo di reazione o azione cerca e si aspetta dal suo pubblico, soprattutto perché decide di operare nello spazio pubblico, che so che lei descrive come “la più grande galleria d’arte del mondo”?
Ho sempre creduto che il potere dell’arte risieda nella sua capacità di stimolare un dialogo. Con il mio lavoro non cerco una reazione particolare da parte della gente, ma piuttosto voglio creare interazioni tra le persone. Per questo motivo incollo per strada e non firmo le mie installazioni, perché voglio che la scala dell’opera impressioni e fermi le persone, le faccia soffermarsi e domandarsi: “Chi è quella persona sul muro? Cosa sta cercando di dire?”. Spetta agli spettatori interrogarsi e rispondere a queste domande, talvolta chiedendo ai passanti se sanno di cosa si tratta.
Cerco di far sì che il mio lavoro crei il maggior numero possibile di interazioni, perché l’arte da sola non cambia il mondo. Il fatto che l’arte non possa cambiare le cose la rende un luogo neutro per gli scambi e le discussioni, e le strade sono sempre state il luogo in cui si può svolgere una discussione aperta e costante, indipendentemente da qualsiasi media e al di fuori di qualsiasi partito politico. L’arte può aiutarci ad affrontare le sfide di oggi perché può cambiare le prospettive delle persone, può abbattere i muri che costruiamo tra di noi e può riconnetterci.
L’opera che abbiamo in mostra alla Fondazione Imago Mundi di Treviso fa parte di Les Enfants d’Ouranos, l’ultima serie di lavori che hai presentato a marzo al Perrotin di New York. La serie è nata dal tuo progetto in corso Déplacé-e-s, che vuole condividere le storie dei bambini rifugiati di tutto il mondo, esplorando le tensioni tra storie visibili e invisibili, nella storia del mondo di oggi. Con questi lavori porti sotto i riflettori le storie delle vittime più “invisibili” e silenziose dei conflitti, che spesso non possono nemmeno avere un’opinione o una voce su ciò che accade intorno a loro, influenzando drammaticamente le loro vite per sempre. Può dirci qualcosa di più sul progetto Déplacé-e-s, su come lo ha concepito e su alcuni dei momenti più impegnativi che ha affrontato per realizzarlo?
Il progetto è stato una reazione ai titoli dei giornali. Il 24 febbraio 2022, l’inizio dell’offensiva militare della Russia sul territorio ucraino ha scatenato una grave crisi in Europa e nel mondo. Una guerra scoppiata in una notte a poche ore di macchina da casa mia ha causato un enorme spostamento di persone. Mi sono recato in Ucraina e ho visitato i campi profughi, parlando con gli specialisti dell’UNHCR (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati). Ho realizzato la prima fase di questo nuovo progetto a Lviv. Non era previsto, mi è venuto spontaneo. A Lviv, l’idea era che Valeriia, la bambina rifugiata di cinque anni fotografata, venisse stampata in modo che i jet da combattimento che volavano sopra non potessero ignorare le persone sottostanti che hanno bisogno di essere protette. La foto aerea di Valeriia ha suscitato un’enorme reazione ed è finita sulla copertina della rivista Time, ma naturalmente ci sono milioni di bambini bloccati nei campi profughi di tutto il mondo e volevo continuare a realizzare progetti in luoghi diversi per amplificare le esperienze di altri gruppi. Una delle località che abbiamo visitato è stata Mbera, Mauritania, dove c’è un campo di quasi 78.000 rifugiati Fulani, Tuareg e Arabi, tutti provenienti dal Mali, che hanno preso residenza nel Sahara. Questo campo è estremamente remoto, abbiamo guidato per trentasei ore attraverso la Mauritania per arrivarci, bucando una gomma nel bel mezzo del viaggio. Tuttavia, quando siamo arrivati è stato incredibile vedere questa intera comunità insediata nel deserto. Molte persone non sono disposte a tornare a casa attraverso il confine. Alcuni sono fuggiti dalle violenze dei gruppi jihadisti, altri dall’esercito maliano, altri ancora stanno scappando dalle conseguenze dirette del riscaldamento globale nel Sahel (siccità estrema, fallimento dei raccolti, conflitti per le risorse). Si tratta di una sorta di campo a “due velocità”, dove i rifugiati di lunga data hanno avviato un processo di emancipazione, coesistendo con i nuovi arrivati che si trovano ancora in una situazione di emergenza. Non sentiamo parlare delle persone che vivono in questo campo nei telegiornali. Nel frattempo, la copertura mediatica della crisi dei rifugiati ci offre sempre le stesse rappresentazioni dei rifugiati. Mostrare le enormi e gioiose immagini dei bambini nei campi profughi di tutto il mondo porta una prospettiva diversa: afferma la loro umanità, mostra tutti i bambini brillanti e innocenti, pieni di sogni e aspirazioni.
Parlando più specificamente della nuova serie, in Les Enfants d’Ouranos: trasferendo i negativi di ogni fotografia su legno siete riusciti a creare una potente metafora visiva sulla condizione di questi bambini, giocando su un sorprendente contrasto tra la luce e il vuoto, tra la loro presenza apparentemente diafana, contrapposta al nero profondo dell’oscurità. Attraverso l’uso drammatico del bianco e nero, le rappresentazioni di questi bambini eliminano anche le specificità e le particolarità culturali, creando una dichiarazione iconica e universale. Come scegli i bambini da fotografare? Immagino la scelta faccia parte anche parte di un processo più profondo di connessione umana (come hai fatto in precedenza) che inizia con la conoscenza delle loro storie e solo dopo giunge alla decisione di quali elevare a icona universale del nostro mondo instabile?
Le immagini utilizzate in Les Enfants d’Ouranos sono state tutte scattate nei campi profughi che ho visitato per il progetto Déplacé.e.s. Ho utilizzato la tecnica del trasferimento dei negativi per invertire la luce e il buio, per trasmettere un senso di divino, di ultraterreno. La loro rappresentazione offusca volutamente le specificità e le particolarità, in modo che lo spettatore non possa riconoscere dove si trovano i bambini. Mentre gli striscioni stampati di Déplacé.e.s presentano i bambini con grande chiarezza e ne evidenziano l’innocenza, le immagini di Les Enfants d’Ouranos portano i suoi soggetti in un regno mitico, dove si trovano in un momento di transizione dall’infanzia all’età adulta, un momento in cui tutte le possibilità sono davanti a loro.
Alla base di tutta la tua attività c’è una grande fiducia e importanza che continui ad attribuire al mezzo fotografico. La fotografia è considerata il primo e probabilmente uno dei migliori mezzi per catturare la realtà così com’è e nel suo accadere.
Per questo motivo le foto sono anche considerate i migliori documenti per raccontare gli eventi che accadono in un determinato momento storico, comprese le guerre. Tuttavia, sappiamo come questa pretesa di veridicità e oggettività abbia delle falle dovute alla possibilità di manipolazione, così come alla soggettività intrinseca di ogni sguardo che scatta una specifica immagine della realtà, ma sempre dalla propria prospettiva che esclude già alcuni altri punti di vista dell’evento specifico.
Qual è la sua percezione del ruolo della fotografia nel documentare gli eventi mondiali di oggi? In che modo ritieni che il tuo approccio specifico alla fotografia, nel trasformarla in una gigantesca dichiarazione visiva nello spazio pubblico, possa espandere alcune delle sue potenzialità e porre rimedio ad alcuni dei suoi problemi intrinseci?
Non mi definisco un fotografo. Per me l’incollaggio, la preparazione, l’installazione, tutto questo è arte. La foto ne è il ricordo. Una volta qualcuno mi ha chiesto: “Come fai a far sì che le comunità si fidino di te e capiscano cosa stai facendo?” e io gli ho risposto che il mio segreto è molto semplice. Dico semplicemente “ciao”, “bonjour”, e poi ci stringiamo la mano. Quando fotografo le persone chiedo sempre il loro consenso, chiedo loro cosa vogliono comunicare, come vogliono esprimersi in un ritratto. Credo che questa sia la chiave, perché non sto spingendo un programma specifico, sto cercando di catturare la storia di una persona attraverso la sua foto. Con gli incollaggi, spesso lavoro senza autorizzazione e senza sponsor, ma più importante dell’autorizzazione legale è il pieno sostegno delle persone che compaiono sui manifesti. Ora, quando concepisco dei progetti, cerco di coinvolgere il maggior numero di persone possibile. Il catalizzatore principale del mio lavoro è riconnettere le persone. Déplacé.e.s non è semplicemente un’enorme fotografia stampata su uno striscione, ma crea un momento che riunisce le persone e per un istante tutti condividono lo stesso semplice obiettivo: sollevare collettivamente l’immagine. L’arte è rappresentata dalle comunità che lavorano collettivamente per portare l’immagine, sollevarla verso il cielo e dichiarare “noi esistiamo”.
Veduta installativa di Les Enfants d’Ouranos, mostra personale Perrotin, New York
Courtesy dell’artista e Perrotin. © JR. Crediti fotografici: Guillaume Ziccarelli.
Les Enfants d’Ouranos #16 2023, inchiosto su legno. Courtesy l’artista e Perrotin. © JR.
Veduta installativa di La guerra è finita! La pace non è ancora iniziata, mostra collettiva Fondazione Imago Mundi, Treviso. Crediti fotografici: Marco Pavan