Che ruolo ha per te l’artista nella società? Pensando anche alla tua esperienza come docente dove ti confronti con decine di giovani artisti, quale ruolo può avere l’arte, soprattutto nella fase di formazione di una persona?
Penso che per capire il nostro presente, per comprendere chi siamo, e da dove veniamo, serva sempre spostarsi e vedersi dal di fuori. È sempre utile pensarci in un contesto molto più grande di quello quotidiano, i nostri bisogni e desideri, come il nostro corpo, hanno una storia millenaria. Sapiens è su questa terra da almeno 130.000 anni, per provare ad essere un artista interessante serve chiedersi cos’era l’arte 4000 anni fa, o 10000 anni fa, per capire che cosa e come questa sarà dopodomani, o tra 5000 anni.
L’arte nasce con la sepoltura e con la consepevolezza della morte, per affrontare quelle delle cose che non capiamo o che ci seducono e che vorremmo capire meglio. Sol LeWitt diceva che gli artisti concettuali sono dei mistici ed aveva ragione. Non nel senso fumoso del termine, ma perché guardano senza paura negli occhi delle cose che prima o poi qualcuno deve guardare. L’arte nacque nelle caverne, nel bisogno di capire cose che non si sapevano dominare, i fulmini, le eclissi, le stelle… Oggi ci accade lo stesso, quando ci confrontiamo con la tecnologia, che è un cellulare ma che sono anche i batteri che ci vivono nella pancia. Per capire chi siamo dobbiamo capire la materia che ci determina, come anche le storie che ci raccontiamo. Lavorare con l’arte è un privilegio, perché ti permette di avere un terreno in cui condividere con gli altri delle cose che non saresti in grado di toccare da solo, in una comunità fatta dai nostri antenati ma anche da chi verrà fra tantissimo tempo, in un luogo che non possiamo ancora immaginare.
Quest’anno di pandemia e di lockdown ha cambiato la tua ricerca e la tua pratica artistica, la tua visione come artista? In alcune tue recenti opere ha preso il sopravvento l’uso di materiale edibile e hai enfatizzato l’aspetto processuale di trasformazione della materia, come nell’ultima serie “Ciotole di Tempo”.
Quando si viene spinti ai limiti si scoprono molte cose; come, per esempio, che l’arte è saper comunicare. Fare arte è dire consapevolmente qualcosa correndo sempre il rischio di non venire capiti. Faccio sempre questo esempio ai miei studenti: “Kangaroo”, come anche “Yucatan”, significano nelle lingue locali “non ho capito”.
Ecco, durante l’isolamento ho ricordato che l’arte è anche evitare di dire “Kangaroo”, ma allo stesso tempo è qualcosa che fai principalmente per te stesso. Pensiamo all’uomo delle caverne, ecco, lui non aveva un pubblico, se non se stesso, e le energie indefinite che cercava di mediare. L’arte serve anche a quello, questo è un insegnamento che traggo dell’isolamento che abbiamo vissuto. Oggi viviamo in un mondo di influencer e di social media, con la costante pressione per un successo immediato, che certo stride con i ritmi dell’arte. Con il lockdown tutto è saltato, si è sospeso, e la necessità di esprimersi, che è ben diverso dal comunicare, si è emancipata dal pubblico, tornando a scoprirsi nutrimento anche intimo.