Nei tuoi progetti cerchi di trasporre l’operazione artistica al di fuori dello spazio espositivo. Ad esempio nel progetto “Qui sembra ancora possibile” intervieni sui pini tagliati all’interno di un parco romano. In che modo inserisci l’aspetto sociale di incontro con il pubblico in progetti artistici non progettati per essere accolti in una galleria?
La tua ricerca e la tua pratica artistica sono state influenzate dall’esperienza della privazione di questi luoghi durante il lockdown del 2020?
La pandemia ha interrotto un flusso positivo, mi ha costretta a riflettere su quanto poco mi piaccia destinare al web, e solo al web, la mia produzione di pensiero. Sento ancora di più la necessità di fare e di vivere il mio fare. Ho realizzato che il mio percorso artistico è progressivamente mutato negli anni, in termini produttivi più che speculativi. Intendo dire che se da un lato la ricerca continua a svilupparsi in ambiti che ho potuto definire piuttosto facilmente sin dal principio del mio impegno professionale – l’attenzione a tutto quanto afferisce ai discorsi sull’identità, il femminile e il femminismo, il rapporto con l’altro e l’inversione del processo di oggettivazione all’interno di questo rapporto – la modalità produttiva ha visto una rimodulazione importante. Introducendo nel 2011 la prassi della scultura sociale, con “Qui sembra ancora possibile”, che mi ha vista collocare fantasmatiche luci verdi nel Parco del Pineto di Roma, fino a “Beat Meierei”, esperimento tenuto fra il 2017 e il 2018 in cui ho portato le performance di artisti come Franziska Lantz, Adam Christensen e Steev Lemercier, fra gli altri, nella realtà di diversi club napoletani. Nel confronto diretto con i tempi e i modi di fruizione di un consesso sociale particolarmente distante da un certo tipo di discorsi, si è consolidata l’urgenza di pensare il lavoro, quanto più possibile, al di fuori degli spazi all’arte canonicamente destinati, e in dialogo con la società. Ritengo oziosa e procrastinabile la messa a punto di visioni il cui valore è a disposizione dei soli addetti ai lavori. Avendo a che fare con le arti visive da sempre, mi sento una privilegiata e voglio condividere, quanto più mi è possibile, questo privilegio. Ho inoltre iniziato a intersecare il linguaggio visivo con quello narrativo e mi interessa molto che il mio fare arte si trasformi in spazio di elaborazione e auto-definizione del discorso al femminile, al fine di costruire un linguaggio che riguardi noi donne tanto nella struttura quanto nei temi.
Quali cambiamenti pensi sarebbero necessari come riflessione generata dall’esperienza collettiva della pandemia?
Vorrei cambiassero moltissime cose, ma mi sembra particolarmente prioritario venga attribuito valore socio economico, quindi rinnovata dignità, al lavoro degli artisti visivi. Perché questo avvenga artisti e addetti ai lavori, e mi sembra che in qualche modo stia già succedendo, devono unirsi ed elaborare strumenti, di natura fiscale per esempio, atti a rendere visibile il nostro ruolo lavorativo e culturale all’interno della società, pungolando le istituzioni affinché adottino e applichino le norme proposte.