di Elisa Carollo

Martha Rosler ha fatto della sua carriera l’essere diretta: senza filtri, ha commentato e affrontato la società contemporanea. Si è confrontata con le sue opere con le dure verità del nostro tempo, affrontando le persistenti ingiustizie, il femminismo, le contraddizioni della società consumistica e, naturalmente, la guerra. Per Rosler la sfera artistica è necessariamente plasmata e legata alle forze politiche della società, piuttosto che fornire un mezzo e uno spazio per sottrarsi ad essa, come l’arte era tradizionalmente concepita. Avendo creato e continuando a creare opere altamente politiche, vorrei chiederle se la sua arte opera attivamente come uno strumento attivista, o è più destinata a fornire un commento per incoraggiare la consapevolezza critica? So che ha descritto le sue opere come “meccanismi per attivare le idee dello spettatore”, incoraggiando un “atteggiamento di riflessione attiva” – il che sembra più simile all’approccio maieutico di Socrate.

L’idea dell’arte come trascendente e avulsa dalle lotte e dagli eventi sociali è qualcosa di specifico del Modernismo e ha avuto una vita molto breve, forse un secolo? Gli artisti avevano già cominciato ad abbandonare questo ritiro dall’impegno sociale diretto subito dopo la Seconda guerra mondiale. È vero che negli Stati Uniti il tardo modernismo è rimasto in auge per molto tempo e che il movimento che lo ha soppiantato, la Pop Art, sembrava celebrare piuttosto che criticare la cultura commerciale popolare. Ma la Pop Art, e in particolare quella praticata dalle donne, ha fornito quasi inevitabilmente una visione distorta dell’immaginario della cultura Pop, in particolare delle rappresentazioni femminili. Si trattava di una critica al potere della cultura consumista di influenzare negativamente la posizione sociale delle donne. Alcuni dei miei lavori sono riconducibili a questo tipo di impegno nei confronti delle rappresentazioni popolari dei mass media, in particolare della stampa popolare, della “donna” e del suo presunto dominio, la casa e la famiglia, ma anche dei miei fotomontaggi che utilizzano le rappresentazioni della guerra, mettendole in stretta relazione con le immagini di quelle case scintillanti e seducenti vendute alle donne della classe media. Mi fa piacere accettare l’idea di un approccio maieutico, che aiuti lo spettatore a far nascere un’idea. Anche dato che il termine “maieutica” si riferisce all’ostetricia, di cui la madre di Socrate sarebbe stata una praticante, come sicuramente saprà.

 

La serie House Beautiful: Bringing the War Home, che presentiamo, è probabilmente una delle opere più iconiche che ha realizzato. In particolare, la guerra del Vietnam è stata descritta come la prima “guerra da salotto”, osservata quotidianamente in televisione. I nuovi media portano la guerra vicino alle nostre vite, prima con la tv e poi con i social media ma allo stesso tempo questo ha paradossalmente generato anche una certa capacità di prendere le distanze da essa: rendere la guerra una presenza ordinaria in casa, ha permesso una normalizzazione della tragedia, giustificandola come “violenza estranea”, cioè qualcosa di percepito come lontano, remoto e altrui. Questa desensibilizzazione è un problema che riguarda molti conflitti ancora in corso oggi e negli ultimi decenni: la bassa percezione e consapevolezza della gravità per il resto del mondo, che è interconnesso mediaticamente, ma progressivamente disconnesso sentimentalmente. Qual è la sua opinione in merito? Come si è evoluta secondo lei la situazione dalla sua prima anticipazione nella prima edizione della serie negli anni ’70, alla seconda e al mondo di oggi?

I fotomontaggi contro la guerra che rientrano nella serie House Beautiful: Bringing the War Home sonno un’evoluzione e sviluppo della serie di fotomontaggi femministi che li hanno preceduti: si trattava di immagini di donne tratte da riviste che ho messo insieme o “aggiustato” in vari modi, e quel gruppo di immagini va sotto il titolo Body Beautiful, o Beauty Knows No Pain. Per passare ora ai soli fotomontaggi contro la guerra nello specifico, credo che la “collisione” delle immagini all’interno di questi fotomontaggi – personaggi di una guerra, contro l’ambiente in cui si trovano – produca sempre un certo shock di incongruenza nello spettatore. A volte si tratta di immagini di persone del “nostro” mondo, quello della casa e della vita quotidiana, che vengono “dislocate” in scene di guerra. In tutti questi fotomontaggi, cerco di insistere sul legame tra i due: tra “noi” e i nostri spazi belli e “sicuri” idealizzati, e “loro”: coloro che vivono in costante precarietà e non hanno diritto a ciò che noi abbiamo avuto il privilegio di ottenere. Finché non capiremo veramente che il mondo non è diviso in “qui” e “là”, ma è un tutt’uno, le guerre non finiranno – e certamente dobbiamo anche notare che se non comprendiamo l’unità del mondo, non risolveremo mai le crisi del riscaldamento globale e le migrazioni e i conflitti che esse generano.

La storia, e in particolare le guerre, sono state per lo più narrate dalla parte vincente e controllate con una narrazione specifica. Questo è vero dal primo resoconto di guerra conosciuto firmato da Erodoto, fino alla guerra del Vietnam, dell’Iraq e dell’Afghanistan. In molte delle sue opere, lei ha smascherato questi meccanismi mediatici, sabotando di proposito alcune narrazioni, come nel caso del video If It’s too Bad to be True, it could be DISINFORMATION (1985) – un’opera dal titolo abbastanza eloquente, che si rivolge a uno spazio di incredulità nei confronti di racconti autorizzati e istituzionali. Alcuni hanno commentato, infatti, che i media hanno contribuito a sfumare i confini tra la verità plausibile del fittizio e quella oggettiva e fattuale della narrazione storica, come un tempo descritta originariamente da Aristotele, generando invece questo ibrido confuso di “Fictual”. Poi i social media, e in particolare Instagram, hanno in qualche modo cambiato le regole del gioco della fiction di guerra, permettendo a persone reali di riferire e raccontare le loro storie dalle aree di conflitto – naturalmente, qualora non oscurate e scollegate dalla censura. Avendo lavorato molto sulla distorsione delle narrazioni e dei messaggi attraverso il controllo dei media, qual è il suo punto di vista su questo nuovo potere della testimonianza e dei creatori che i social media hanno portato rapidamente come alternativa al reportage dei media tradizionali?

Le tecnologie del reportage di guerra hanno aumentato progressivamente la loro presenza nelle nostre vite, e sono in continua evoluzione. Ma la fotocamera del cellulare è ancora oggi il mezzo principale di reportage diretto da fonti non mediatiche e non giornalistiche, se è questo che si intende per “persone reali”. Da mettere in evidenza, per esempio, il ruolo potente delle fotocamere dei cellulari nell’esporre il grado di violenza con cui la polizia uccide persone di colore negli Stati Uniti, spesso giovani uomini, e spesso senza alcuna giustificazione reale se non il fatto che la polizia ha pistole e altre armi e, cosa più importante, che ha il potere di usare la forza con la più sottile delle scuse. Tre dei recenti omicidi di alto profilo da parte della polizia sono stati compiuti soffocando le persone o picchiandole a morte con pugni e manganelli. Anche in Ucraina le testimonianze delle telecamere dei cellulari sono state altrettanto preziose nel smascherare e rendere pubblici i crimini di guerra russi. Tuttavia, come possiamo vedere dalla profonda nebbia di menzogne che avvolge il popolo russo in patria, il potere di controllare la storia è ancora nelle mani di coloro che controllano i media, compreso Internet. La manipolazione dei media da parte di una destra fanatica, generalmente finanziata da persone molto ricche, rimane comune a molti, moltissimi Paesi.

 

Tornando alla sua serie iconica che presentiamo in mostra, questi fotomontaggi potrebbero essere letti anche come una dura critica a un’idealizzazione della domesticità resa confortevole per le donne (sempre presenti come protagoniste) dalla società consumistica, ma che allo stesso tempo riconferma nella sua iconologia un “meccanismo di addomesticamento delle donne”, in una famiglia nucleare dominata dagli uomini, temi, questi molto ricorrenti nel suo lavoro. Le cose sono certamente cambiate (almeno nella maggior parte della società occidentali) dai suoi primi lavori femministi come il video Semiotics of the Kitchen, ma molte battaglie per l’uguaglianza di genere sono ancora da combattere, come ci ha mostrato l’Iran con la prima rivolta guidata dalle donne in Medio Oriente. Nel corso della storia ci sono stati molti conflitti basati sulla religione, così come molti conflitti etnici che sono ancora in corso. Ma pensa che vedremo mai una guerra condotta dalle donne, contro il sistema patriarcale? Considera queste proteste in Iran una sorta di guerra civile? Cos’è la battaglia femminista, oggi?

Penso che vedremo una guerra gestita dalle donne? Possiamo seguire il modello nell’immaginaria Lisistrata, ma questo si qualifica come guerra o come pressione sociale? Tra i curdi del Rojava, in Siria, le donne non solo sono note combattenti, ma sono anche leader nello sviluppo di forme di socialismo libertario e paritario di genere. Oggi, in Iran, le proteste di massa iniziate da giovani donne (e rapidamente raggiunte dalle loro controparti maschili, pur essendo ancora guidate principalmente da donne, alle quali si sono unite anche le zie e le madri!), seguono il modello di una rivolta sociale e di una sollevazione di massa in una società con aspettative crescenti che non vengono soddisfatte. Solo le rivoluzioni avvengono in questo modo, non le “guerre civili”. Ma per quanto io ammiri e sostenga profondamente i molti atti di rivolta di queste donne – la mia foto del profilo Facebook è quella di Mahsa Amini, uccisa dalla polizia morale iraniana – non so prevedere quale sarà il corso degli eventi in Iran. Lo Stato è ancora molto potente e molte persone nelle strade, compresi i bambini, sono state uccise durante i loro sforzi per ottenere un cambiamento. Lo Stato potrebbe decidere di abbandonare l’insistenza sull’hijab, oppure no. Ci sono dispute interne al regime stesso, ovviamente, su come procedere. Non sono affatto sicura di cosa determinerà il risultato. Di sicuro possiamo unirci alle donne iraniane e ai loro alleati al grido di “Donne, vita, libertà”. Per rispondere alla seconda domanda: la battaglia femminista oggi è ovunque! Consiste nell’insistere sulla piena uguaglianza di tutte le persone sotto la legge, sull’equità sociale, ma allo stesso tempo sul riconoscimento dei compiti speciali che di solito spettano alle donne. Non è una novità: si tratta di una battaglia di lunga data – già 50 anni fa qualcuno la definì “la rivoluzione più lunga” – ma va costantemente ribadita. Le società, e parlo soprattutto di quelle a moderata e alta ricchezza, dovrebbero davvero accelerare il ripensamento di tutti gli elementi dell’organizzazione umana e “snaturalizzare” le forme di associazione familiare e di vita familiare che abbiamo ereditato, perché non ci servono più nel presente. Non c’è dubbio che l’elemento essenziale per il pieno ingresso delle donne nel ruolo di adulte funzionanti è il diritto assoluto alla sovranità sul proprio corpo e la fine dei presupposti patriarcali sul sesso e sul genere, sulla maternità e sulla cura dei bambini. Ciò significa anche che la violenza contro le donne, sia essa all’interno della famiglia o perpetrata da chiunque altro, deve essere presa sul serio e perseguita senza sosta dalla legge. Questo non vuol dire trascurare il fatto che lo spettro dei sessi si è ora esteso in modo riconoscibile a molte permutazioni diverse che devono essere riconosciute come pari. E mi auguro di poter ritenere superfluo dire che anche l’educazione dei ragazzi e degli uomini deve essere sviluppata per ricostruire radicalmente le aspettative e i comportamenti sociali. Le industrie del consumo più importanti, soprattutto quelle della moda e della cosmesi, dipendono dalla continua oggettivazione delle donne, resa ancora più grave durante la pandemia dal ruolo di Instagram e di altri canali di comunicazione.

 

Come hanno commentato alcuni critici e soprattutto semiologi (tra gli altri, Antonio Scurati), oggi viviamo in gran parte in un’era di letteratura e in una narrazione mediatica di “non esperienza”, che permette allo spettatore una “trascendenza” dai fatti reali che accadono, in quanto sempre percepiti a distanza, filtrati da uno schermo che protegge dalla realtà da cui si è colpiti e preoccupati per la gravità. Questo lo vediamo accadere, ancora una volta, anche nel caso della progressiva desensibilizzazione nei confronti del conflitto in Ucraina. Come dovrebbe essere raccontata la guerra per mantenere le persone consapevoli e impegnate? Quale può essere il ruolo dell’arte, se non nel fornire utopiche soluzioni ai conflitti, almeno per sensibilizzare e tenere alta l’attenzione sui problemi del mondo di oggi?

Lei mi chiede come si dovrebbe raccontare la guerra per tenere le persone consapevoli e impegnate? Con un metodo consolidato, il migliore che abbiamo al momento: tramite reporter sul campo, che riferiscono quotidianamente, e con i conduttori dei telegiornali e coloro che partecipano a programmi che discutono di questioni attuali che continuano a parlarne. La posta in gioco della guerra, soprattutto in relazione al futuro dell’Europa, deve essere continuamente spiegata in modo chiaro; è saggio fornire storie di interesse umano in cui la vita in una zona di guerra viene raccontata da chi la sta vivendo. Intervistate i profughi della guerra in Ucraina – dopo aver permesso loro di trovare un posto in Italia o altrove in Europa – e intervistate anche quei migranti più poveri che hanno la sfortunata sorte di essere coinvolti in guerre e condizioni di devastazione economica fuori dall’Europa, nel Sud globale – quelli che devono rischiare la morte migrando in modo scioccantemente precario attraverso il Mediterraneo per cercare una vita in Italia e altrove in Europa. Circa dieci anni fa ho realizzato a Torino un lavoro intitolato Invisible Labor, basato su interviste a giovani donne nigeriane e sui loro complessi e difficili viaggi verso Milano, dove si sono ritrovate a lavorare nel mercato del sesso. Le interviste a giovani uomini provenienti dall’Africa subsahariana riguardavano soprattutto le loro nuove vite nel settore dei servizi. Oggi, invece, i modelli di migrazione sembrano essere molto diversi, poiché si sono intensificate le guerre e le devastazioni climatiche (e quindi economiche) e la xenofobia è in aumento. È orribile e angosciante che l’Italia, per esempio, sia ora guidata da un partito che ha legami diretti con il Partito Fascista, senza una vera ragione per sostenere l’Ucraina, ma piuttosto per continuare a diffondere la loro narrativa xenofoba di successo sull’invasione dell’Italia da parte di stranieri di pelle scura e non cristiani e i suoi echi degli attacchi essenzialmente razzisti contro le persone provenienti dal sud dell’Italia. L’arte può essere strumento potente e convincente, ma pur sempre come complemento di altre voci: le voci dei giornalisti e delle vittime, dei sostenitori e degli attivisti, e come complemento agli sforzi delle persone per chiedere di meglio a noi stessi e ai nostri governi.

 

Questa intervista è stata realizzata nel marzo 2023.

PHOTO CREDIT

Semiotics of the kitchen, Courtesy dell’artista

Point and Shoot, from the series House Beautiful: Bringing the War Home, New Series, 2008 Fotomontaggio. Courtesy dell’artista, Galleria Raffaella Cortese, Milano e Mitchell-Innes & Nash, New York

Invasion, from the series House Beautiful: Bringing the War Home, New Series, 2008 Fotomontaggio. Courtesy dell’artista, Galleria Raffaella Cortese, Milano e Mitchell-Innes & Nash, New York

If It’s too bad to be true, It could be disinformation, Courtesy dell’artista

Invisible Labor, Courtesy dell’artista

BIOGRAFIA

Martha Rosler (New York, USA), vive e lavora a Brooklyn, NY. Rosler lavora con video, fotografie, installazioni e performance. Ha pubblicato diversi libri di fotografie, testi e saggi sullo spazio pubblico, che trattano dagli aeroporti alle strade, dagli alloggi alla gentrificazione. Ha tenuto numerose mostre personali, tra cui: Schirn Kunsthalle, Francoforte (prossimamente nel 2023); MARe Museum, Bucarest (2022); Tate Modern, Londra (2022); Es Baluard Museu, Palma (2020); Museo de Arte Contemporáneo Santiago, Cile (2019); The Jewish Museum, New York (2018); Kunstmuseum Basel (2018); MACBA, Barcellona (2017); Art Institute of Chicago (2016); IVAM, Valencia (2015); MoMA, New York (2012); GAM, Torino (2010) Centre Pompidou, Parigi (2007); Sprengel Museum, Hannover (2005); The New Museum of Contemporary Art, New York (2000); International Center of Photography, New York (2000); Dia Art Foundation, New York (1989). È stata inclusa in numerose mostre collettive, tra cui al MoMA di New York (2023), allo Smithsonian American Art Museum di Washington (2019), al Garage Museum di Mosca (2019), al Whitney Museum di New York (2018), al Museo Serralves di Porto (2017) e al Reina Sofía di Madrid (2013). Ha partecipato a Skulptur Projekte Münster 07; dOCUMENTA 7 (1982) e dOCUMENTA 12 (2007); alla 50° Biennale d’Arte di Venezia (2003); alla Biennale di Liverpool (2004) e a numerose altre biennali.

BIOGRAFIA

Martha Rosler (New York, USA), vive e lavora a Brooklyn, NY. Rosler lavora con video, fotografie, installazioni e performance. Ha pubblicato diversi libri di fotografie, testi e saggi sullo spazio pubblico, che trattano dagli aeroporti alle strade, dagli alloggi alla gentrificazione. Ha tenuto numerose mostre personali, tra cui: Schirn Kunsthalle, Francoforte (prossimamente nel 2023); MARe Museum, Bucarest (2022); Tate Modern, Londra (2022); Es Baluard Museu, Palma (2020); Museo de Arte Contemporáneo Santiago, Cile (2019); The Jewish Museum, New York (2018); Kunstmuseum Basel (2018); MACBA, Barcellona (2017); Art Institute of Chicago (2016); IVAM, Valencia (2015); MoMA, New York (2012); GAM, Torino (2010) Centre Pompidou, Parigi (2007); Sprengel Museum, Hannover (2005); The New Museum of Contemporary Art, New York (2000); International Center of Photography, New York (2000); Dia Art Foundation, New York (1989). È stata inclusa in numerose mostre collettive, tra cui al MoMA di New York (2023), allo Smithsonian American Art Museum di Washington (2019), al Garage Museum di Mosca (2019), al Whitney Museum di New York (2018), al Museo Serralves di Porto (2017) e al Reina Sofía di Madrid (2013). Ha partecipato a Skulptur Projekte Münster 07; dOCUMENTA 7 (1982) e dOCUMENTA 12 (2007); alla 50° Biennale d’Arte di Venezia (2003); alla Biennale di Liverpool (2004) e a numerose altre biennali.

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