Massimo Bartolini in dialogo con Mattia Solari

Nella sua pratica artistica Massimo Bartolini lavora con installazioni architettoniche, performance, suono, foto e video. Dopo gli studi da geometra frequenta l’Accademia di belle arti di Firenze, ma è soprattutto il mondo del teatro che lo influenza maggiormente. Interessato ad agire sullo spazio e sugli attori che lo popolano, Bartolini crea opere che indagano la percezione degli spazi che abitiamo in un equilibrio fra meditazione spirituale e osservazione disinteressata. Musica e paesaggio sono due fra i temi più ricorrenti che affronta nelle sue opere site-specific contribuendo a creare ambienti inusuali che giocano con le percezioni e le sensazioni degli spettatori.

Partirei parlando dell’opera esposta in mostra, Horizontal Victory. Immagino che come tutti i tuoi lavori, anche per quest’opera ci sia stato un periodo di ricerca che precede la formalizzazione. Dal pattern che ricopre l’opera in cui si sovrappongono due diversi camouflage militari rendendone quindi la mimetizzazione impossibile, all’oggetto senza corpo in ascolto, come hai definito tu stesso la scultura che giace sul pianoforte assorta nell’ascolto del silenzio. Vorrei chiederti da dove è partito lo stimolo a indagare gli strumenti musicali e le loro connessioni con la guerra e come sei arrivato a scoprire e scegliere i pianoforti prodotti dalla Steinway & Sons per l’esercito statunitense.

Massimo Bartolini: I camouflage provengono da due guerre diverse: la Seconda guerra mondiale e la guerra in Iraq. Nel primo c’era già l’altro. Come spesso mi succede lo scatto verso il lavoro viene da un libro, “Alla ricerca del pianoforte perfetto” di Katie Hafner. Lì l’autrice parla fugacemente della Steinway & Sons come costruttore di alianti per il trasporto delle truppe; di fatto non volavano bene ed i soldati usavano le gigantesche casse degli alianti come alloggi. Da lì attraverso ricerche e la selezione del copioso materiale che ho trovato ho progettato una serie di lavori dei quali Horizontal Victory è l’unico che è stato realizzato.

 

Nella tua pratica hai spesso reinventato in modi non ortodossi i media che usi, penso alle luminarie de La strada di sotto, 2011, il ponteggio e l’organo di Organi, 2008, così come ad una delle opere più conosciute Untitled (Wave), 1997-2001, o ai primi interventi come Casa di Francesca Sorace, 1993. In queste opere prendi a prestito oggetti per alterarne la funzionalità, creando così nuovi significati che mettono in crisi la comune percezione degli oggetti e dell’ambiente che li ospita. Sovvertire funzioni, codici e significati mi ricorda la riflessione che l’antropologo e storico francese Michel de Certeau fa nel suo libro più celebre, L’invenzione del quotidiano, con i termini strategia e tattica. Entrambi sono dei modi peculiari di agire nello spazio sociale, il primo usato dalle classi egemoni per mantenere il loro potere, il secondo dai consumatori passivi che attraverso azioni calcolate attuano azioni difensive e opportuniste per presentare forme di alterità radicale e di resistenza davanti al potere; per questo Certeau definisce la tattica anche come l’arte dei deboli. Rivedi in qualche modo il tuo agire artistico in questa riflessione?

Né strategia né tattica… mi piacerebbe saper pulire e illuminarlo bene un posto. Francamente il lavoro che faccio non ha molto del sociale. A me piace pensare che cambiare, spostare, unire uno o più oggetti provoca lo svelamento di un aspetto e l’oscuramento di altri dello stesso oggetto.

Nel 2010 hai co-curato con Stefano Arienti la mostra -2 +3 al Museion di Bolzano in cui avete spostato dai depositi agli spazi espositivi parte delle opere degli archivi del museo. Negli ultimi anni si è scritto e riflettuto molto sulle differenze e sulla permeabilità dei ruoli di artista e curatore, come hai vissuto quell’esperienza? Cosa credi che il ruolo di artista abbia da offrire a quello di curatore e, viceversa, cosa credi che il lavoro di curatore possa dare alla pratica d’artista, e nella fattispecie, alla tua pratica che si occupa spesso di spazio e ambienti?

Nelle scuole gli studenti molto spesso sono tutti e due le cose. Non percepiscono le differenze e io sono d’accordo con loro. Si cura da artisti le mostre e si fanno opere curando forme di intensità, credo che oggi questa sia una distinzione obsoleta che serve solo per la comunicazione.

 

Tornando alla mostra dove è esposta Horizontal Victory, per me includere quest’opera ha significato avere un tassello in più che potesse descrivere come la guerra non sia solo fatta da armi nei campi di battaglia ma anche attraverso altri strumenti, in questo caso musicali, che diventano funzionali allo sforzo bellico. Parlare di guerra significa quindi parlare anche della natura umana a 360 gradi. Come pensi possa rispondere l’arte a questo tema così drammatico? Cosa rispondere a quel celebre “che fare?” che dal pamphlet di Lenin all’opera di Mario Merz interroga l’agire umano?

La mia risposta sarebbe che tutti potessero rendere lunghi quanto una vita i momenti di incanto che ci capitano nella vita.

PHOTO CREDITS

Massimo Bartolini, The Street Below,  2011
Massimo Bartolini, Horizontal Victory, 2022  Installation view, Fondazione Imago Mundi, © Marco Pavan
Massimo Bartolini, Organs, 2008
Massimo Bartolini, Untitled, 2008

 

BIOGRAFIA

Massimo Bartolini (1962, Cecina, Italia), vive e lavora a Cecina. Proveniente dal mondo del teatro, Bartolini realizza spesso performance, opere sonore, installazioni e video per lavorare sullo spazio e sulla sua percezione da parte di attori e spettatori. I suoi lavori sono stati presentati presso: Centro Pecci per l’arte Contemporanea, Prato (2022); CSAC, Parma (2020); Palazzo Oneto, Palermo, evento collaterale Manifesta 12 (2018); Fondazione Merz, Torino (2017); Museo Marino Marini, Firenze (2015); SMAK, Ghent (2013); The Fruitmarket Gallery, Edimburgo (2013); Museu Serralves, Porto (2007); GAM, Torino (2004); Casa Masaccio, San Giovanni Valdarno (1998); British School at Rome (1997); PS1, New York (2001). Ha partecipato alla Biennale d’Arte di Venezia (1999, 2001, 2009, 2013); Biennale di Valencia (2001); Manifesta 4 (Francoforte, 2002); Biennale di San Paolo (2004); Biennale di Pontevedera (2004); Biennale di Shanghai (2006 e 2012); International Triennial of Contemporary Art (Yokohama, 2011); Documenta 13 (Kassel, 2012); Yinchuam Biennal (Cina, 2018); Bangkok Biennial (2020).

BIOGRAFIA

Massimo Bartolini (1962, Cecina, Italia), vive e lavora a Cecina. Proveniente dal mondo del teatro, Bartolini realizza spesso performance, opere sonore, installazioni e video per lavorare sullo spazio e sulla sua percezione da parte di attori e spettatori. I suoi lavori sono stati presentati presso: Centro Pecci per l’arte Contemporanea, Prato (2022); CSAC, Parma (2020); Palazzo Oneto, Palermo, evento collaterale Manifesta 12 (2018); Fondazione Merz, Torino (2017); Museo Marino Marini, Firenze (2015); SMAK, Ghent (2013); The Fruitmarket Gallery, Edimburgo (2013); Museu Serralves, Porto (2007); GAM, Torino (2004); Casa Masaccio, San Giovanni Valdarno (1998); British School at Rome (1997); PS1, New York (2001). Ha partecipato alla Biennale d’Arte di Venezia (1999, 2001, 2009, 2013); Biennale di Valencia (2001); Manifesta 4 (Francoforte, 2002); Biennale di San Paolo (2004); Biennale di Pontevedera (2004); Biennale di Shanghai (2006 e 2012); International Triennial of Contemporary Art (Yokohama, 2011); Documenta 13 (Kassel, 2012); Yinchuam Biennal (Cina, 2018); Bangkok Biennial (2020).

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