Otobong Nkanga usa performance, installazioni, disegni e arazzi, per raccontare il nostro rapporto con la memoria, l’ambiente e la storia dell’Africa e del mondo occidentale.
L’artista è particolarmente interessata a raccontare storie sul consumo delle risorse naturali e sul rapporto tra l’uomo e la terra. A suo modo, Nkanga agisce come un’antropologa culturale, riflettendo sul post-colonialismo e sul capitalismo globale, ripercorrendo il modo violento in cui materie prime e minerali preziosi vengono prelevati dal loro ambiente naturale in Africa e trasformati in oggetti che vanno dai gioielli agli oggetti di uso quotidiano.
L’abbiamo incontrata per approfondire la sua pratica artistica e parlare delle opere esposte per Atlante Temporaneo.
Nel 2015, lo stesso anno in cui hai prodotto Infinite Yield, uno dei due arazzi esposti in Atlante Temporaneo, hai visitato le miniere di rame di Tsumeb in Namibia. Racconti che quando sei arrivata hai trovato “un buco enorme nel terreno, circondato da edifici diroccati e un campo contaminato pieno di materiali di scarto dall’estrazione delle materie prime”. Credo che questa visione abbia in effetti ispirato il lavoro succitato, vorrei quindi chiederti come, più in generale, funzionato il tuo processo di creazione. Inizi spesso con un disegno ma quali sono le tue fonti di ispirazione?
Il modo in cui inizio il mio lavoro non è molto lineare, ci sono molti fattori scatenanti come, ad esempio, i luoghi che ho visitato, come la miniera in Namibia che citavi tu, ci sono emozioni e pensieri, ci sono cose legate ai materiali che incontro. Nel corso del tempo la combinazione di pensieri, luoghi, emozioni e materiali mi porta a farne un’opera d’arte. Non si tratta di un singolo approccio, ma di una combinazione di molti approcci, e anche di cose legate a storie accadute in un momento specifico, e tutto ciò rende possibile l’esistenza dell’opera. È difficile scegliere una sola cosa, perché è sempre un intreccio di più elementi.
Hai proposto di usare le miniere come fossero dei monumenti veri e propri; questa potente e bellissima metafora, è una proposta che sposta la nostra concezione e valutazione dell’ambiente in cui viviamo. Forse l’idea di usare una miniera come monumento è più in vicina al concetto di readymade che alla pratica degli artisti della Land art, dal momento che sembra che quel che c’è da vedere sia già effettivamente davanti a noi, serve solo iniziare a guardarlo con occhi diversi. Fai arte anche con questa intenzione?
Non credo ci sia separazione tra il readymade e il materiale prodotto dalla terra, quei buchi sono molto legati alla relazione con la terra, il paesaggio e il materiale che forma il nostro ambiente. Per me l’idea, più che di spostare i punti di vista, è di collegare cose che sono state separate nel tempo, quindi la separazione tra la terra e noi. Il mio obiettivo è di creare connessioni in modo che possiamo capire che non siamo separati dalla terra, ma esistiamo perché essa esiste.
L’estrazione e la trasformazione delle materie prime sono argomenti che appaiono nel secondo lavoro in mostra, In Pursuit of Bling: The Discovery, dove rappresenti il minerale mica. È contemporaneamente una mappa e un diagramma, una sorta di cartografia che fonde storie personali e collettive. Oggi siamo ancora testimoni di forme di colonialismo come il land grabbing e lo sfruttamento che causa inquinamento e desertificazione di Paesi africani, questo si rispecchia anche nelle menti e nei corpi di chi lavora e vive là. Come può l’arte sopperire a tutto ciò?
Vorrei tornare alla connessione che ho menzionato prima, per collegare quel rapporto di estrazione da più luoghi su cui non facciamo luce. Qui in Occidente, nei cosiddetti Paesi sviluppati, l’uso di materiali, come ad esempio la mica, ha creato una sorta di vuoto in altri luoghi. La colonizzazione non è legata solo a quei luoghi, parliamo solo della parte sfruttata e di quella che subisce il trauma, ma sottovalutiamo il potere che infonde e infligge questo tipo di violenza e di trauma. Penso che un’opera d’arte possa mostrare l’interconnessione di entrambe le parti, quella che infligge e quella che viene inflitta, che sia in nome degli Stati o degli interessi economici. L’arte è in grado di aprire modi di guardare e talvolta anche di creare strutture che permettono altri modi di esistere, di essere connessi e consapevoli delle relazioni, l’arte rende possibile aprire modi di guardare al mondo e al modo in cui viviamo in esso. Quindi il concetto di estrazione non è legato solo all’Africa, anche in Europa ci sono molti casi di estrazione e di inquinamento, ma si tende a parlare dell’Africa solo come riferimento per le cose che non funzionano. Questa narrazione è distorta.
Affermi che le parole hanno per la tua pratica artistica una grande importanza poiché con esse puoi giocare liberamente, rompendole e riformulandole. Come entrano le parole in una pratica che è soprattutto visiva? Che valenza ha la parola per te?
Lavoro molto con la poesia, la si ritrova in molti dei miei lavori. Per esempio “Alterscapes”, è una parola che non esiste, a volte invento parole e a volte uso un inglese corrotto. Questo gioco di parole è un modo di pensare attraverso il linguaggio, anche con il potere del linguaggio e ciò che fa, per creare un immaginario attraverso la rottura di una parola. Per esempio attraverso la parola “fragilologo” immagino che ci sia una scienza che studia la fragilità, ma cosa significa studiare la fragilità? Quindi, mettendo insieme certe parole o creandone di nuove, si può creare un nuovo immaginario. Per me è interessante toccare di più le emozioni, e scrivendo poesie si riesce a raggiungere quello spazio. Penso che con le parole si sia in grado di giocare e di muoversi in stili diversi, di creare modi di pensare per collegare più campi di pensiero all’interno di una singola parola. Tuttavia, l’uso delle parole è sempre interconnesso con l’opera d’arte, sia che si tratti del titolo, sia che sia presente visivamente, sia che vi si faccia riferimento indirettamente; ci sono molti modi in cui il riflesso delle parole può essere presente in un’opera. Permette di approfondire il lavoro che si sta facendo attraverso il linguaggio che si è incontrato durante la realizzazione dell’opera; quindi non si limita solo al titolo dell’opera, ma anche al modo in cui le parole e il linguaggio influenzano i suoi punti di vista e la sua percezione, e alla loro capacità di scomporre le parole e di ricreare una nuova forma di linguaggio, non solo a livello testuale, ma anche nel modo in cui l’opera è formata e creata; in sintesi è una traduzione in un’altra dimensione.