Nella sua pratica Paul Maheke fonde varie discipline e linguaggi artistici esplorando come si formino e rendano visibili o invisibili la memoria, l’identità e le storie delle minoranze e dei marginalizzati. Nel tentativo di riconfigurare i modi di percepire l’altro, Maheke ridefinisce ciò che sensibile e i modi in cui lo percepiamo, evocando figure di fantasmi, forme di vita aliene o extra terrene.
In questa intervista l’artista approfondisce il suo contributo alla mostra Atlante Temporaneo con delle riflessione sull’uso dell’immagine nell’identità personale e sull’immaginazione di altri possibili mondi.
Parlando del tuo lavoro in una precedente intervista hai affermato che esso “è un tentativo di rimuovere me stesso dall’aspetto rappresentativo della memoria politica al fine di trovare nuovi modi di affrontare questioni come la censura e la permeabilità nella costruzione di una identità”. Il tuo lavoro è quindi un tentativo di mappare e tradurre l’interiorità, o l’identità, attraverso delle forme visive?
No, penso che quello che volessi dire con quella frase era che le immagini, o rappresentazioni, possono solo essere un impedimento alla nostra comprensione di come la politica si muove attraverso e con noi. Secondo me noi siamo fatti di politica tanto quanto di carne e ossa.
Quindi una traduzione può solo che essere parziale. Il problema con la rappresentazione è che nella nostra società occidentale ossessionata con le immagini spesso essa sembra prevalere sopra tutto il resto: la vista versus la politica incarnata da corpi e persone. Per questo motivo per me è importante contrastare la credenza che qualcosa esista solo se può essere visto (o rappresentato).
Sembra che tu abbia un rapporto ambivalente con le immagini. Da un lato ne vai alla ricerca e le integri nel tuo lavoro, come ad esempio in Du ciel, à travers le monde, jusqu’aux enfers (III), dove troviamo nel cubo di vetro un’incisione 3D del Lucifero di Franz Von Stuck; dall’altro lato c’è una tendenza a comunicare senza rappresentazione, per esempio lasciano tracce senza forma sulla superficie di rame come in The Moss Has a Got a Pair of Eyes. In che modo il tuo rapporto con le immagini entra e plasma la tua pratica più in generale?
Definirei la mia relazione con le immagini come inquieta più che ambivalente. Sebbene siano molto presenti in quanto parte integrante del mio lavoro, la mia pratica tiene in considerazione anche altre dimensioni. Per esempio il lavoro che descrivi usa vetro e rame, materiali che sono ottimi conduttori di energia. Perciò per quanto l’occhio possa essere attratto dall’immagine, il resto del nostro corpo può interagire con questi oggetti su un altro livello. Mi piace pensare ai miei lavori come a dei facilitatori di esperienze, nel senso che essi esplorano varie forme di canalizzazione.
Ooloi, uno degli altri lavoro esposti per Atlante Temporaneo, prende il suo nome dal personaggio appartenente alla specie aliena nel romanzo fantascientifico Xenogenesis di Octavia Butler. Queste sono creature appartenenti ad un terzo genere sessuale, mutanti e in grado di raccogliere materiale genetico da altri esseri viventi. Questa citazione sottolinea il tuo interesse per personaggi che contestano le narrative dominanti; gli alieni, così come i fantasmi, sono un modo per re-immaginare possibili passati o futuri. Come vedi questi passati e futuri? Come te li immagini?
La risposta breve sarebbe: multipli e complessi.
Parlando sempre di regimi di visibilità ed estraniamento del sé, sono incuriosito da come tu stesso leggi i tuoi lavori. Se fuoriuscissi da Paul Maheke per un momento cosa vedresti?
Se fossi in grado di fuoriuscire da me stesso e vedere i miei lavori probabilmente vedrei la profonda risonanza che i miei lavori intrattengono con il posizionamento. Essendo cambiata la mia posizione potrei essere quindi in grado di includere a pieno ciò che è stato lasciato non detto o non visto.
Credo veramente che il mio lavoro abbia una “agentività” e che esso preesista al suo essere concretizzato nelle mie opere. Perciò, dal di fuori le molte cose che le mie opere compiono e di cui non sono conscio potrebbero alla fine emergere, sono sicuro che si formano ombre anche nei luoghi più inaspettati.