Dicembre 2023
La dodicesima edizione del Premio Francesco Fabbri per le Arti Contemporanee che si è svolta presso l’omonima Fondazione di Pieve di Soligo, ha premiato le ricerche di Andrea Mauti per l’Arte emergente e Leonardo Magrelli per la Fotografia contemporanea.
Li abbiamo incontrati per approfondire il loro lavoro e le opere vincitrici. I sessanta partecipanti al premio saranno in mostra presso Villa Brandolini a Solighetto fino al 17 dicembre.
LEONARDO MAGRELLI
Senza titolo dalla serie I Baccanti è l’opera selezionata dalla giuria per la sezione Fotografia contemporanea. Sospesa tra celebrazioni contemporanee e ritualità arcaiche, I Baccanti è un progetto dove hai estrapolato dei frame da video caricati online da utenti che hanno ripreso i festeggiamenti per la Madonna del Soccorso a Foggia durante il lockdown a maggio 2020. Come hai selezionato le foto? Cosa ti ha colpito di questa vicenda?
Nel maggio del 2020, nonostante fosse stata annullata come tutte le altre celebrazioni pubbliche per via del divieto di assembramenti, in un quartiere popolare di San Severo in provincia di Foggia, circa trecento persone hanno partecipato ai festeggiamenti per la Madonna del Soccorso, un’importante ricorrenza del luogo. Sui social media sono apparsi alcuni video di questa vicenda, ripresi dagli stessi partecipanti con i propri cellulari, in cui li si può osservare mentre si rincorrono in mezzo a un parco, lambiti dalle violentissime esplosioni di fuochi d’artificio e avvolti dalla pioggia luminosa delle loro scintille. Sui social media è apparsa anche una dedica a un boss locale, ucciso due anni prima in un agguato. Nelle immagini diffuse non appare alcun intervento da parte delle forze dell’ordine.
A breve distanza da questi eventi, uno di questi video era assurto all’onore delle cronache ed era stato ritrasmesso in numerosi telegiornali e programmi di approfondimento, nei quali si era dibattuto a lungo su quanto fosse accaduto. È così che sono incappato in questo filmato, e ne sono rimasto profondamente colpito.
Da un lato, alcuni dettagli mi hanno immediatamente fatto pensare a stilemi della Grecia arcaica, a gruppi di oranti intenti in preghiere e con le mani levate al cielo, a manipoli di uomini alle prese con una battuta di caccia, o intenti a celebrare rituali arcaici e dionisiaci nella loro sfrenata vitalità, in mezzo alla natura e circondati da grandi fuochi, che diventano man mano esplosioni sempre più potenti, e che tramutano le immagini in scene di guerra. Dall’altro lato, trovo che questo video metta in scena alcune contraddizioni che caratterizzano la nostra contemporaneità: assistiamo infatti all’arcaismo di questi rituali religiosi autoctoni che a fatica si adattano al nostro panorama mediale contemporaneo – basti vedere come queste scene siano tutte registrate su smartphone, che appaiono in numerose immagini –, assistiamo al fallimento del controllo dello Stato – “una sfida inaccettabile alla città e allo Stato” ha commentato il sindaco il giorno dopo gli eventi –, assistiamo alla violenza latente delle periferie che si scatena, che si incanala e che si manifesta sempre in modi diversi.
Tutto ciò mi interessava ben più del fatto che si trattasse del periodo del lockdown. Per questo non mi sento assolutamente di categorizzare questo lavoro come un progetto che riguarda il Covid, in alcun modo.
L’espediente della stampa lenticolare che usi in questa serie rende più mossa l’immagine e più sospesa l’atmosfera ritratta. È questa la sensazione che ricercavi?
Esattamente! Le stampe lenticolari di solito vengono utilizzate per realizzare cartoline dall’effetto “prima-dopo”, nelle quali, muovendo l’oggetto di fronte ai nostri occhi, vediamo comparire prima un’immagine e poi un’altra. Tuttavia, regolando la parallasse della pellicola zigrinata che viene applicata sulle stampe, e lavorando con formati più grandi, si può ottenere una sorta di compresenza ottica delle due immagini in diverse zone della stampa. Questo effetto risulta molto singolare, poiché, tra le altre cose, ci costringe a muoverci nello spazio per poter osservare i costanti cambiamenti che avvengono sulla superficie della stampa.
Nel caso de I Baccanti, ogni opera è creata campionando dettagli isolati da coppie di fotogrammi in successione. In ogni passaggio da un fotogramma all’altro avviene sempre un cambiamento di illuminazione della scena, dovuto alle esplosioni dei fuochi d’artificio. In questo modo, tagliati, ingranditi, sgranati, fusi tra loro, privi di ogni contestualizzazione, disgiunti dalla concitazione del flusso delle immagini e lontani dal rumore dei fuochi d’artificio, i fotogrammi svelano una nuova dimensione estetica e paiono evocare quei quelle nuove connotazioni storico-antropologiche di cui parlavamo prima.
Alcuni tuoi lavori precedenti giocano sul confine tra reale e fittizio e tra visibile e invisibile: penso alle foto della Los Angeles finzionale desunte da un videogioco in West of Here, 2020; o gli impossibili ritratti di specchi in Meerror, 2016, in cui ci mostri degli specchi dove però il soggetto che scatta la foto è assente. Ti interessa indagare la percezione e la soggettività e i modi in cui questa cade in fallacia?
Direi che mi interessa soprattutto l’ultima, ossia il modo in cui cadiamo nella trappola delle immagini. Forse per via della mia formazione, che mi ha portato fin da subito ad avere un rapporto con la fotografia molto libero e aperto alla manipolazione, mi è sempre stato chiaro quanto il concetto di verità fotografica fosse labile e quanto le immagini potessero mentire. Questi due assunti credo abbiano influenzato profondamente la mia pratica artistica successiva, in buona parte incentrata sull’idea di mettere in crisi i concetti di riconoscimento e di indessicalità del mezzo fotografico, e di esplorarne l’intrinseca ambiguità.
Quando parlo di indessicalità e di ambiguità, mi riferisco al fatto che, per quanto manipolata e artefatta potesse essere, fino a poco tempo fa, una fotografia conservava comunque sempre la traccia di qualcosa di fisico che avveniva al di là dell’obbiettivo. Ed era proprio il fatto che ci fosse un pezzo di realtà in ogni scatto ad aver reso così complicata la nostra relazione con questo medium. Assurto sin dagli esordi a “specchio della realtà” e a paradigma della riproduzione oggettiva del mondo (nonostante, già dai suoi albori, molti artisti avessero intuito con estrema lucidità la natura problematica del mezzo), abbiamo poi impiegato molto tempo per scrollarci di dosso questa sorta di fede cieca, e per renderci conto la fotografia potesse essere manipolata, e potesse manipolare noi.
Tuttavia, a mio parere, continuiamo a credere sempre troppo nelle immagini che vediamo, quasi non potessimo farne a meno. E questo è un pericolo da non sottovalutare, soprattutto al giorno d’oggi, in cui assistiamo troppo spesso al ritorno della propaganda al posto della libera informazione, nel racconto delle guerre e delle crisi internazionali, o in cui assistiamo inermi al modo in cui le immagini sui social-media plasmano le nostre aspettative sul mondo e ci permettono di presentare una versione di noi accuratamente preparata. In sostanza, trovo che la nostra credulità nei confronti di queste immagini derivi ancora da quella presenza di un pezzo del mondo reale all’interno di ogni fotografia.
Eppure, oggi, il rapporto che le immagini fotografiche intrattengono con ciò che chiamiamo realtà si fa sempre più sfuggevole. E va dall’alterazione dei propri contenuti con la post-produzione, alla sovrapposizione in tempo reale di filtri fotografici che modificano il nostro aspetto fisico, all’emulazione degli standard fotografici all’interno delle realtà virtuali come quelle dei videogame, fino alla generazione di immagini fotorealistiche tramite l’intelligenza artificiale, e quindi fino alla totale perdita di un referente reale di qualsiasi genere.
Noi siamo immersi all’interno di tutti questi cambiamenti, che avvengono oltretutto a una velocità disarmante. Non c’è da stupirsi quindi che sia molto difficile avere uno sguardo chiaro e lucido su tutto ciò. L’arte però può essere un modo di farci i conti.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Per fortuna non mancano! Anzi, quello che manca è sempre il tempo di riuscire a svilupparli. Ad ogni modo, vorrei finire a breve di lavorare a The Plant, una serie più propriamente fotografica che porto avanti ormai da qualche anno, e nel frattempo sto prendendo le misure ad un progetto decisamente impegnativo, in cui vorrei unire fotografia astronomica, scultura, animazioni e installazioni per parlare di un fatto personale che ha segnato la mia vita. Nel frattempo, procede anche l’attività forsennata con il duo di cui sono parte, Vaste Programme. Anche in quel caso, per fortuna abbiamo un sacco di idee che non vediamo l’ora di portare avanti.
ANDREA MAUTI
Untitled è la scultura in bronzo che ha vinto la sezione Arte emergente. È una piccola scultura astratta che simula un reperto proveniente da tempi e luoghi remoti. Dalla superficie increspata emerge il simbolo del riciclo, unico elemento veramente leggibile. Come decidi, se le decidi, le forme delle opere? Come selezioni o crei queste forme? Mi colpisce soprattutto per lo iato tra le opere pittoriche che sono figurative e quelle scultoree, che invece sono prettamente astratte.
Mi interessa esplorare una contingenza fisica della materia e degli oggetti con cui lavoro, come se le tracce lasciate impresse sulle cose fossero una testimonianza di un tempo sospeso, arcaico e futuro. In questo modo, le forme e gli ibridi industriali che si formano durante questo processo, nascono e si trasformano autonomamente come se ci trovassimo di fronte a delle presenze attive e fluide che reagiscono tra di loro in modo inaspettato, senza che io eserciti un controllo diretto nella realizzazione dei reperti. Potremo paragonare il risultato di questo processo all’impossibilità di collocare in un contesto specifico gli oggetti che entrano a far parte di un ecosistema globale e non identificabile.
Molto spesso decido di lasciare dei simboli, come nella scultura Untitled, o meglio delle tracce linguistiche impercettibili che rimandano ad un linguaggio convenzionale utilizzato nell’ambito delle cosiddette supply chains, in grado di determinare la specificità di un prodotto, di un oggetto, talvolta di animali, in modo da classificarli, categorizzarli e fissarli all’interno di categorie identificative prestabilite.
I codici che rimangono impressi sulle sculture vengono completamente trasfigurati dalle reazioni che avvengono tra i diversi materiali e perdono la loro valenza semantica che non fa altro che limitare l’esperienza dell’altro da noi.
Molto spesso le sculture, come nella mostra attualmente da ADA, assumono forme a bacino, generando degli spazi di pieno e di vuoto, accogliendo e respingendo l’osservatore all’interno dello spazio. Le immagini che avevo in mente quando ho pensato all’architettura installativa da ricostruire all’interno della galleria, erano delle foto di archivio di bacini di animali ermafroditi ritrovate all’interno dell’archivio Queer a Monaco di Baviera, quando contestualmente stavo producendo il lavoro che ho presentato per il premio. Il piccolo bronzo era originariamente una cornice in polistirolo che proteggeva un piccolo schermo. Queste fessure che si aprono attraverso gli imballaggi industriali sono dei portali che si aprono a realtà ulteriori, come se fossero dei display invisibili di un’iPhone.
Talvolta le forme scultoree assumono le sembianze di creature non identificabili al limite del mostruoso. Diventano per me dei corpi mitologici o artefatti che evocano immaginari archeologici e nascono dai nostri stessi scarti quotidiani, dal nostro agire sulla Terra. Una possibile reazione alchemica tra realtà spaziali e temporali disordinate e sovrapposte.
Nella pittura questo scarto temporale è ben più visibile e trascina a sé un’idea antimonumentale del lascito classico che viene esaltata da gesti, corpi frammentati e segnati dal tempo che abitano le tele come se fossero scene quotidiane mentre velature digitali dei polistiroli vengono impresse sulla tela come a voler contenere la scultura e creare uno scarto temporale fra archeologie diverse.
Attualmente sei in mostra con la personale ÆND presso ADA Project a Roma, dove esponi una serie di sculture in resina, alluminio e silicone che si librano a mezz’aria. Il tuo lavoro è stato definito come una sorta di “fantarcheologia”, una disciplina che sovrappone lo studio dell’antichità con scenari fantascientifici e postumani, finanche post-apocalittici. A cosa si rifà il titolo? Cosa ti interessa del disorientamento cronologico che mi sembra connoti il tuo modus operandi?
Il titolo della mostra è la sovrapposizione del termine “end”, in quanto fine di una narrazione, ed “and” come congiunzione che annuncia un tempo che tende ad esaurirsi e autodistrugersi, nella possibilità di un risvolto futuro della realtà sociale e politica attuale. ÆND è il risultato di un interesse verso lo studio delle teorie e dei pensieri apocalittici, come nel caso di Ernesto de Martino , che esprimono una forte tensione verso il futuro e il presente che sembra sempre più rivelarsi oscuro e irreversibile.
Quello a cui assistiamo sempre più di frequente è una forte precarietà della condizione dell’essere umano, a disastri ecologici, all’insorgere di rigurgiti politici nostalgici sempre più forti. Tutti questi fattori creano un senso di alienazione e di sventura, molto simile a quello che viene evocato e messo in scena dalla fiction fantascientifica, in cui la finzione data dalla simulazione di scenari paralleli, in realtà, superano, se non anticipano in modo profetico, fenomeni che mettono in crisi la presenza dell’umano, delle altre specie e dell’ecosistema in tuttə noi abitiamo.
In questo senso, l’esperienza del Covid è stato un momento storico in cui il tempo si è catalizzato irrimediabilmente, un tempo costruito, e ci siamo ritrovati immersi in un possibile scenario di un film di Cronenberg o in Neuromancer di Gibson.
Come scrisse Bifo, ci siamo ritrovati di fronte ad una creatura invisibile che ha messo in crisi la nostra centralità all’interno dello spazio. Esseri umani intubati e inermi, corpi decomposti, strade deserte… Tuttavia questo fenomeno non ha fatto altre che consolidare ancora di più un accelerazionismo dirompente, in cui la realtà sembra essere ancora più affannata e posseduta da una volontà oscura e compulsiva che agita le nostre vite, generando un forte trauma psicologico e sopratutto corporale.
Di conseguenza, non esiste più una dimensione temporale lineare: il passato tende inesorabilmente a ripresentarsi a noi, accelera e si ritrae continuamente a sé.
“Là sotto ci sono cose che non sono fatte per gli occhi degli uomini, ma delle anime”, afferma una dei personaggi che compare ne La Chimera, il recente film di Alice Rohrwacher che narra le vicende di un gruppo di tombaroli. Te la cito perché mi ha colpito mentre vedevo il film, ed è riemersa mentre pensavo a questo approccio archeologico che permea il tuo lavoro. C’è anche nel tuo lavoro una tensione a ricostruire un’aura per questi oggetti?
E mentre Italia, interpretata da Carol Duarte, nella scena da te citata, pronuncia quella battuta il paesaggio dove sono immersi i personaggi è la costa di Tarquinia, di notte, mentre la mostruosa centrale di Civitavecchia fa da sfondo ed emana segnali luminosi che si riverberano nel sito dove viene rinvenuta la scultura.
È questa tensione archeologica che mi interessa nel film e che ritrovo nel mio lavoro. Una sovrapposizione di paesaggi contaminati in cui il presente, l’arcaico e il futuro si sovrappongono in un solo frame cinematografico. Il momento in cui viene rinvenuta la testa, tagliata letteralmente dal corpo scultoreo, sembra sprigionare un incantesimo oscuro che si riverbera poi nei gesti e nelle azioni dei protagonisti.
Le sculture presenti ne La Chimera, così come le mie, sono assorbite da uno spettro oscuro, vivono nell’ombra del substrato culturale. Una magia arcana le tiene legate all’oscurità e allo stesso tempo diventano una testimonianza concreta di quello che si agita al di sopra: nel caso specifico del film, la centrale termoelettrica di Civitavecchia col suo impatto paesaggistico e ambientale.
Questa instabilità tellurica si riverbera nelle sculture che diventano in questo senso una testimonianza sotterranea e organica del nostro presente. Sono scorie iperoggettuali e tossiche che nascono dalle impalcature della società capitalista, una possibile frammentazione di un paesaggio contaminato in cui l’identità è sospesa nella rappresentazione oggettiva, digitale e fluida. Nella mostra attualmente da ADA questi corpi sospesi diventano presenze organiche in mutamento che mettono in scena una Danse Macabre in cui il corpo si estende oltre le pareti carnali, tra i fili e i tubi elettrici, impalcature architettoniche, tra realtà virtuali, fino alla creazioni di identità plurime.
Recuperando oggetti trovati, scorie tossiche e digitali, corpi e materiali organici, come un archeologo cerco di ricostruire un’immagine distopica e irreale del tempo.
Disfare il mondo, rompere le impalcature che sorreggono l’impianto sistematico contemporaneo e immergerci tuttə insieme nel fango di un pianeta ormai danneggiato.
Sei attualmente in residenza presso la Cité internationale des arts a Parigi, su cosa stai lavorando?
Durante questo periodo di residenza ho cominciato a muovermi spesso tra lo spazio esterno ed interno della città di Parigi, mappando una sorta di cartografia di oggetti trovati in alcune aree specifiche della città, tra la periferia dove la gentrificazione sta enormemente modificando il tessuto urbano e il centro della città, dove si riverberano forti tensioni politiche.
Il mio progetto di ricerca si muove tra immagini d’archivio del 1860 durante l’esperienza della Commune di Parigi e di come i manifestanti abbiano letteralmente sovvertito lo spazio urbano creando dei Protest Landspaces, fino ad approdare all’esperienza della derive di Guy Debord i cui scritti e disegni, nonché modellini scultorei, ci inducono a ripensare al nostro modo di abitare e muoverci nelle arterie delle città. Attraverso il recupero di foto di documentazione sull’antimonumentalità dell’architettura e la realizzazione di un video che farà parte di un progetto che intendo sviluppare in un arco temporale lungo, in questa fase il mio lavoro si alimenta di riferimenti storici e politici che mi aiutano ogni volta a costruire un immaginario archeologico che assorbe a sé le scorie tossiche della nostra società. Parallelamente sto cominciando a scrivere e a raccogliere frammenti testuali che mi aiuteranno a sviluppare un progetto performativo in cui la presenza del corpo dei performers agisce come catalizzatore di input esterni e gesti incontrollati all’interno di un playground contaminato e organico.
Leonardo Magrelli, dettaglio di Senza titolo, dalla serie I Baccanti, 2023, stampa UV su lastra lenticolare, dittico. Courtesy l’artista e DIVARIO, Roma
Leonardo Magrelli, Senza titolo, dalla serie I Baccanti, 2023, stampa UV su lastra lenticolare, dittico. Courtesy l’artista e DIVARIO, Roma
Leonardo Magrelli, Follia Sacra, Installation View, DIVARIO, Roma, 2023. Foto © Studio Daido
Leonardo Magrelli, West of Here, Installation View, Talent Prize, Museo delle Mura, Roma, 2022
Leonardo Magrelli, Cold Canyon Rd, Calabasas, Los Angeles County, California, dalla serie West of Here, 2020-2021
Leonardo Magrelli, #58, dalla serie Meerror, 2016
Leonardo Magrelli, #59, dalla serie Meerror, 2016
Andrea Mauti, Untitled, 2022, bronzo, ossidi. Courtesy ADA, Rome
Andrea Mauti, “ÆND”. Veduta della mostra presso ADA, Rome, 2023. Fotografia di Roberto Apa. Courtesy of ADA, Rome.
Andrea Mauti, Hybrid Enclosure, 2023, resina, paraffina, alluminio, fibre tessili, silicone, pigmenti, elementi organici. Fotografia di Roberto Apa. Courtesy of ADA, Rome.
Andrea Mauti, Memory of a Floating Time Body.Ext, 2023, resina, paraffina, alluminio, fibre tessili, silicone, pigmenti, elementi organici. Fotografia di Roberto Apa. Courtesy of ADA, Rome.
Leonardo Magrelli (1989) vive e lavora Roma, dove ha studiato Grafica prima e Storia dell’Arte poi. La consapevolezza della natura ibrida e ambigua della fotografia rappresenta il filo conduttore del suo lavoro, aperto alla manipolazione e al riuso delle immagini, e caratterizzato da approcci post-fotografici e installativi. Alla sua ricerca personale affianca dal 2017 la collaborazione con il collettivo Vaste Programme, per dedicarsi a nuove forme di sperimentazione artistica.
Tra le sue mostre più recenti: Follia Sacra, Divario, Roma 2023; Small is Beautiful, Flowers Gallery, Londra 2023; Ascolto il tuo cuore, città, Magazzino, Roma 2021; The Plant, Jest, Torino 2021. Nel 2022 è secondo classificato al Talent Prize indetto da Inside Art, vince il Premio Castelfiorentino, la menzione speciale del Premio Graziadei indetto dal Maxxi di Roma, ed è finalista al Premio Terna tenutosi a Palazzo delle Esposizioni. Nel 2021 viene nominato per il programma Futures Photography da CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia, è finalista al Premio Michetti e pubblica il suo primo libro “West of Here”, con la casa editrice statunitense Yoffy Press.
Andrea Mauti (Roma, 1999), vive e lavora a Roma. La sua ricerca si sviluppa attraverso processi di ibridazione e sublimazione della materia organica e inorganica. Questi atti trasformativi che si attuano sugli oggetti nascono da una visione post-apocalittica e archeologica della realtà circostante e dell’entità non antropocentriche che la abitano. Laureato in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Roma nel 2022, è in residenza presso la Cité international des Arts di Parigi I Nuovo Grand Tour 2023. Le sue mostre recenti includono: ÆND, ADA Rome (2023); BIG BANG! Basement Roma Studio, CURA, Roma (2023); Collettiva #2 Monitor, Pereto, Roma, Lisbona (2022); Scoppio Terzo, Terni (2022); sublimation_simulation, ADA, Roma (2022), Masters Salon’s paintings, in collaboration with European Academies of Fine Arts (2021), Hétérotopie, curata da Edoardo Monti Bubble’n’Squeak, Bruxelles (2021), Degree Show, Palazzo Monti, Brescia (2020), INSIEME, curata da Gianni Politi, Via di Porta Labicana, Roma (2020), Back to Nature, curata da Costantino d’Orazio Villa Borghese, Roma (2020).
Leonardo Magrelli (1989) vive e lavora Roma, dove ha studiato Grafica prima e Storia dell’Arte poi. La consapevolezza della natura ibrida e ambigua della fotografia rappresenta il filo conduttore del suo lavoro, aperto alla manipolazione e al riuso delle immagini, e caratterizzato da approcci post-fotografici e installativi. Alla sua ricerca personale affianca dal 2017 la collaborazione con il collettivo Vaste Programme, per dedicarsi a nuove forme di sperimentazione artistica.
Tra le sue mostre più recenti: Follia Sacra, Divario, Roma 2023; Small is Beautiful, Flowers Gallery, Londra 2023; Ascolto il tuo cuore, città, Magazzino, Roma 2021; The Plant, Jest, Torino 2021. Nel 2022 è secondo classificato al Talent Prize indetto da Inside Art, vince il Premio Castelfiorentino, la menzione speciale del Premio Graziadei indetto dal Maxxi di Roma, ed è finalista al Premio Terna tenutosi a Palazzo delle Esposizioni. Nel 2021 viene nominato per il programma Futures Photography da CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia, è finalista al Premio Michetti e pubblica il suo primo libro “West of Here”, con la casa editrice statunitense Yoffy Press.
Andrea Mauti (Roma, 1999), vive e lavora a Roma. La sua ricerca si sviluppa attraverso processi di ibridazione e sublimazione della materia organica e inorganica. Questi atti trasformativi che si attuano sugli oggetti nascono da una visione post-apocalittica e archeologica della realtà circostante e dell’entità non antropocentriche che la abitano. Laureato in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Roma nel 2022, è in residenza presso la Cité international des Arts di Parigi I Nuovo Grand Tour 2023. Le sue mostre recenti includono: ÆND, ADA Rome (2023); BIG BANG! Basement Roma Studio, CURA, Roma (2023); Collettiva #2 Monitor, Pereto, Roma, Lisbona (2022); Scoppio Terzo, Terni (2022); sublimation_simulation, ADA, Roma (2022), Masters Salon’s paintings, in collaboration with European Academies of Fine Arts (2021), Hétérotopie, curata da Edoardo Monti Bubble’n’Squeak, Bruxelles (2021), Degree Show, Palazzo Monti, Brescia (2020), INSIEME, curata da Gianni Politi, Via di Porta Labicana, Roma (2020), Back to Nature, curata da Costantino d’Orazio Villa Borghese, Roma (2020).