Where things happen #13— Aprile 2023

Le possibili relazioni e integrazioni tra medium  tradizionali come la pittura e le nuove opportunità sia creative che critiche offerte dal digitale, sono al centro del dibattito curatoriale e museale di oggi.

Tuttavia, pochi artisti dimostrano di lavorare in modo così genuino su questa intersezione come Ricardo Cabret, nato a Porto Rico e di base nel Queens,  New York.

Non sorprende che Cabret non abbia in realtà una formazione artistica,  di base: ha infatti studiato innanzitutto ingegneria informatica, ambito che negli ultimi 10 anni è stata, ed è tuttora rimane, la sua occupazione principale.

Tuttavia, come ci racconta all’inizio della nostra visit nel suo studio, Cabret è stato da sempre circondato da artisti e attratto dalla pittura, cosa che lo ha portato a conseguire parallelamente  comunque un minor in pittura, e dividendo il suo tempo per dedicare anche all’attività artistica qualche ora ogni giorno.

Il suo studio funge infatti anche da spazio di lavoro, dove questi due universi apparentemente distanti finiscono a coesistere: lavorando in remoto, Cabret riesce a organizzare  il suo programma giornaliero distribuendo equamente il suo tempo tra queste due vocazioni, in uno spazio in cui possono essere organicamente intrecciate e combinate.

Poiché la sua pratica in studio si colloca in un punto di convergenza personale e intellettuale pressoché unico fra informatica e pittura, per Cabret è naturale portare nella sua arte anche le sofisticate conoscenze di programmazione e coding che possiede.

Questo è appunto anche quello che distingue la sua ricerca da quella di altri artisti che lavorano oggi nell’intersezione tra pittura e digitale, o unicamente nell’ambito dell’arte digitale: Cabret è coinvolto quotidianamente e attivamente nel contribuire alla  infrastruttura di dati e codici che si è integrata nelle nostre vite, e per questo riesce a portarla in modo critico all’interno delle proprie opere, nell’ambito di una profonda analisi delle tensioni esistenti tra la tecnologia e il mondo umano e naturale.

In particolare, l’artista è interessato a rendere visibili le reti di dati invisibili e la loro architettura che esiste intorno a noi, integrando il paesaggio antropologico e naturale con l’infrastruttura virtuale e digitale da cui è oggi monitorato, controllato, e previsto.

Nel perseguire questo obiettivo, Cabret crea complessi dipinti astratti multistrato, che  rispecchiano sia nell’aspetto estetico che nel processo, l’astrattezza della matematica e della coding che  permettono oggi di trasformare numeri e dati in serie complesse in informazioni visive, attraverso vari dispositivi e software.

Il primo livello delle sue tele consiste generalmente in quella che sembra un’astrazione gestuale intuitiva, che si concentra su cromatismi e atmosfere.

Al contrario, come Cabret mi mostrerà in seguito, ciò che è all’origine di questo primo livello, è ben più interessante  complesso, in quanto ispirato da animazioni casuali generate dal suo computer una volta digitato un codice specifico: in un mix di controllo e intuizione, razionalità e casualità, l’animazione al computer svela i meccanismi alla base dello spazio digitale di informazioni e immagini in cui siamo tutti immersi.

Sopra questo primo strato, tramite un processo che richiede tempo, Cabret aggiunge poi degli strati cerosi e traslucidi fatti di polimero gel e polvere di marmo. Tale miscela di materiali è stata ideata dall’artista per evitare le tradizionali tecniche di encausto a base di cera e olio, dopo aver riconosciuto la sua intolleranza agli oli.

Nonostante tale scelta tecnica sia stata obbligata da una necessità personale, questa nuova combinazione permette a Cabret di sfidare ulteriormente le pratiche pittoriche tradizionali, offrendo una soluzione originale che esalta l’effetto plastico e strutturale di queste infrastrutture, apparentemente invisibili ma al contempo trasparenti.

In questo modo,  le reti di dati si vengono smaterializzare sulla tela con una sorta di presenza spettrale,  solide e virtuali allo stesso tempo, in sovrapposizione e giustapposizione rispetto alle scene sfocate e appena identificabili sottostanti, che combinano paesaggi di territori caraibici in pericolo, facendo riferimento ai ricordi di Porto Rico.

Questo aspetto è reso ancora più chiaro da un’opera più ampia che era in studio al momento della nostra visita, presto partenza per la sua prossima mostra di maggio alla Kohn Gallery di Los Angeles: qui la linea costiera è stata dipinta dall’artista in modo più riconoscibile, ma allo stesso modo pare come infestata da presenze sfocate di grattacieli e altri edifici che si alternano al paesaggio naturale.

Guardando più a fondo l’opera, si possono notare una serie di elementi traslucidi e curvilinei che l’attraversano, segnalando la consistente rete di dati economici e finanziari che regna su questi paesaggi fisici alterati dall’uomo, vittime dell’inarrestabile e sregolato sviluppo urbano e degli investimenti e speculazioni che li alimentano.

In questo senso, sia nelle scelte tecniche che nel processo, l’opera di Cabret manifesta in modo significativo anche il  processo costante di rivelazione e occultamento di informazioni che avviene tra lo spazio fisico e quello digitale, smascherando le dinamiche dietro ai sistemi di controllo e di potere che operano in connessione e a monitoraggio del mondo di oggi.

 

Essendo immerso nel mondo informatico e tecnologico, l’artista sembra meno interessato ad una critica unidirezionale delle minacce e delle criticità del suo potenziale uso improprio.

Cabret pare piuttosto coinvolto nell’esplorazione appassionata del potenziale creativo della tecnologia, e in particolare del modo in cui la pratica basata su dati e codici possa generare creazioni libere e inaspettate.

In questo senso,  il coding e lo spazio del web vengono affrontati dall’artista come mezzi ricchi di risorse da esplorare e sfidare in  maniera aperta e libera, mettendone alla prova le funzionalità, la mutevolezza e relative dinamiche.

Per questo motivo, Cabret non ha mai abbinato in modo diretto e letterale i suoi dipinti alle astrazioni digitali basate sul software da cui traggono ispirazione e assocabili più alla generative art, preferendo presentare queste ultime  piuttosto come proiezioni video o installazioni nello spazio.

D’altra parte, la natura fluida e open-source che caratterizza le sue opere basate su software e coding sembrano espandere  la pratica di Cabret anche verso approcci più vicini alla pratica performative e site-specific, sebbene in questo caso attuati in uno spazi digitale: composti dall’artista come interventi online che avvengono in uno specifico spazio e tempo virtuale, tali opere sono infatti caratterizzate da un livello di irripetibilità aspetto alle configurazioni formali che si vengono a generare, pari a quello che caratterizza happening e performance.

Approfondendo ulteriormente l’analisi della pratica di Cabret, possiamo poi notare anche come anche la sua e produzione scultorea si collochi a sua volta in un interessante scambio tra input altamente tecnologici delle animazione  sugli schermi, e la struttura che li supporta, realizzata con materiali organici come il legno ma rigorosamente progettata digitalmente con coding.

Entrando poi in conversazione su argomenti come lo spazio del web, internet art e dell’arte digitale, l’artista mostra una profonda conoscenza della sua evoluzione a partire dai primi anni ’90, nonché una profonda consapevolezza della posizione in cui vuole che la sua pratica si collochi in questa storia.

Cabret confessa di considerare le sue opere parte della Net Art, in quanto primariamente  ispirate da astrazioni aperte basate sul codice che invitano lo spettatore a giocare con questa tecnologia, per scoprire il suo potenziale creativo ma anche i suoi limiti.

Il termine Net art è, infatti, qualcosa di molto diverso da molte declinazioni recenti della cosiddetta “arte digitale”, come mi spiega l’artista: la net art è, piuttosto una forma d’arte site-specific legata alla propria presenza e al proprio impatto su Internet, e ha quindi bisogno che questa esista per esprimersi. È concepita attraverso Internet, su Internet e per Internet.

La net art attinge i propri materiali direttamente dal web, per analizzarlo, sfidarlo, manipolarlo e persino ironizzarlo, per mettere in discussione e demistificare le dinamiche e le funzionalità che si celano dietro questo miracolo tecnologico.

Cabret confessa che per lui un’opera di’”arte digitale” con senso dovrebbe innanzitutto riuscire ad interrogare il dispositivo e il processo che permettono a queste immagini digitali di essere create ed esistere –  che è probabilmente l’aspetto più rilevante da interrogare sia in termini di cultura visiva che di implicazioni nella società.

Non a caso, una delle figure che Cabret ha citato più volte durante la nostra conversazione, e per cui rivela una profonda ammirazione, è il pioniere della grafica computerizzata John Whitney, uno dei primi a identificare nei pixel il primo comune denominatore per immaginare creativamente nuove immagini e strutture all’interno della cornice del computer.

Le prime esplorazioni di Whitney su pixel che rimbalzano in modo apparentemente casuale e che si ricombinano in configurazioni geometriche, forme e modelli regolari, lo hanno portato al concetto di armonia digitale, tracciando un parallelo con il punto di luce di cui parlava Klee come qualcosa che poi si muove, disegna una linea, che poi crea un volume. Questa eredità e le riflessioni estetiche sul regno digitale sembrano in definitiva essere il terreno per l’approccio di Cabret al mezzo e alla sua ricerca.

Tuttavia, l’artista ammette anche alcuni aspetti critici nelle sue astrazioni basate su codici open-sourcing e ascrivibile più al dominio della generative art: queste creazioni posso infatti apparire infatti troppo fluide e intangibili, per poter essere cristallizzate nel concetto tradizionale di opera d’arte.

La loro imprevedibilità e il loro formato fluido sollevano infatti effettivamente una serie di questioni in termini di diritti e autenticità, e di come proteggerli.

Tuttavia, queste preoccupazioni estetiche sono state già state messe sufficientemente in discussione ancora da artisti pionieri del concettuale come Duchamp, in primo luogo, seguito da una schiera di arte concettuale o process art: ormai possiamo dare per scontato nella critica dell’arte che l’idea possa prevalere sull’oggetto fisico e fattuale come opera d’arte, e che questo possa essere spesso protetto e certificato semplicemente come istruzioni dal suo autore, qualora si configuri in forme del tutto effimere o immateriali.

Del resto, questa riflessione si avvicina anche a quanto ha osservato dal critico Robert Adrian commentando il punto di contatto estetico e concettuale tra arte digitale e arte concettuale, affermando che: “Uno spazio elettronico, in particolare, è molto facile da immaginare una volta afferrata l’idea di spazio concettuale per un’opera d’arte”.

La questione sollevata da opere come quelle di Cabret è piuttosto se l’ “idea” da proteggere e da individuare come vera essenza dell’opera d’arte debba essere il codice che attiva il processo, o piuttosto l’intuizione e la volontà dell’artista di dare al computer questo specifico input per generarla.
A prescindere dagli esiti, la questione sembra  rispecchiare perfettamente alcune delle riflessioni più rilevanti che dovrebbero essere approfondite oggi, quando si analizzano le relazioni e interazioni tra l’intelletto e la creatività umana, e le nuove tecnologie e macchine.

Traducendo l’esperienza di queste tecnologie digitali e dei codici astratti in un linguaggio visivo, con la sua ricerca Cabret riesce in qualche modo a demistificare i processi digitali e tecnologici, incoraggiando un confronto rilevante su come questi funzionano, interagiscono, mediano e influenzano la nostra percezione ed esperienza quotidiana del mondo.

Tuttavia, queste preoccupazioni estetiche sembrano essere state messe in discussione anche da artisti dirompenti come Duchamp, per primo, seguito da una schiera di arte concettuale o processuale. Ormai possiamo dare per scontato che l’idea prevalga sull’oggetto fisico e fattuale come opera d’arte, e che questo possa essere spesso protetto e certificato come istruzioni o parole dal suo autore quando troppo immateriale.

È quanto ha osservato anche il critico Robert Adrian, commentando il punto di contatto estetico e concettuale tra arte digitale e concettuale, quando ha affermato che: “Uno spazio elettronico, in particolare, è molto facile da immaginare una volta afferrata l’idea di spazio concettuale per un’opera d’arte”.

Nelle opere di Cabret, la questione ora è se questa “idea” di proteggere e considerare la vera essenza dell’opera d’arte debba essere il codice che attiva il processo, o piuttosto l’intuizione e la volontà dell’artista di dare al computer questo specifico input per generare l’opera.

A prescindere dagli esiti, la questione sembra già rispecchiare perfettamente alcune delle preoccupazioni più importanti che dovrebbero essere indagate oggi quando si analizzano le relazioni tra l’intelletto e la creatività umana e le nuove tecnologie e le macchine.

Di fatto, traducendo l’esperienza di queste tecnologie digitali e dei codici astratti in un linguaggio visivo, Cabret riesce a demistificare i processi digitali e tecnologici, avviando discussioni pertinenti su come funzionano, interagiscono, mediano e influenzano la nostra percezione ed esperienza quotidiana del mondo.

 

BIO

Ricardo Cabret (nato nel 1985 a Porto Rico) lavora e vive nel Queens, a New York.
La sua pratica interseca principalmente informatica, coding e pittura.
Il suo interesse per i sistemi binari affonda le radici nella natura, considerando gli elementi costitutivi della creazione come numeri, linee ed elementi naturali.

Il lavoro di Cabret è stato incluso in mostre istituzionali acclamate dalla critica, come "Tropical is Political: Caribbean Art Under the Visitor Economy Regime", curata da Marina Reyes Franco e presentata prima all'Americas Society di New York e presto al Museo de Arte Contemporaneo de Puerto Rico, San Juan, Porto Rico.
L'artista è stato parte dell'ultima Biennale del Bronx Museum curata da Eva Mayhabal Davis e Ian Cofre, Bronx, New York; Counterflags curata da Natalia Viera Salgado, Abrons Art Center, New York e Surfacing curata da Carlos Rosales-Silva, Ruiz Healy Art, New York, tra le altre.
Il suo lavoro è stato presentato in mostre personali presso Elena Maria Ketelsen Gonzalez, La Salita, New York; Meca International Art Fair, Porto Rico; Galeria Miscelanea, Barcellona, Spagna e Galería Espacio 304, San Juan, Porto Rico.

Cabret avrà presto una mostra personale alla Kohn Gallery di Los Angeles, che ha presentato il suo lavoro anche ad Art Basel Miami 2022.

BIO

Ricardo Cabret (nato nel 1985 a Porto Rico) lavora e vive nel Queens, a New York.
La sua pratica interseca principalmente informatica, coding e pittura.
Il suo interesse per i sistemi binari affonda le radici nella natura, considerando gli elementi costitutivi della creazione come numeri, linee ed elementi naturali.

Il lavoro di Cabret è stato incluso in mostre istituzionali acclamate dalla critica, come "Tropical is Political: Caribbean Art Under the Visitor Economy Regime", curata da Marina Reyes Franco e presentata prima all'Americas Society di New York e presto al Museo de Arte Contemporaneo de Puerto Rico, San Juan, Porto Rico.
L'artista è stato parte dell'ultima Biennale del Bronx Museum curata da Eva Mayhabal Davis e Ian Cofre, Bronx, New York; Counterflags curata da Natalia Viera Salgado, Abrons Art Center, New York e Surfacing curata da Carlos Rosales-Silva, Ruiz Healy Art, New York, tra le altre.
Il suo lavoro è stato presentato in mostre personali presso Elena Maria Ketelsen Gonzalez, La Salita, New York; Meca International Art Fair, Porto Rico; Galeria Miscelanea, Barcellona, Spagna e Galería Espacio 304, San Juan, Porto Rico.

Cabret avrà presto una mostra personale alla Kohn Gallery di Los Angeles, che ha presentato il suo lavoro anche ad Art Basel Miami 2022.

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