MOSTRA

La guerra è finita! La pace non è ancora iniziata

Fondazione Imago Mundi presenta da mercoledì 5 aprile a domenica 17 settembre 2023 presso la sede espositiva Gallerie delle Prigioni a Treviso la mostra La guerra è finita! La pace non è ancora iniziata.

Fino alla fine della mostra, al secondo piano della sede espositiva, saranno esposte la nuova collezione Art Theorema #3 e l’installazione Tessere la pace di Olimpia Biasi. 

 

La mostra espone lavori di 15 artisti: Francesco Arena, Terry Atkinson, Massimo Bartolini, Eteri Chkadua, Maxim Dondyuk, Harun Farocki, Leon Golub, Alfredo Jaar, JR, Mario Merz, Richard Mosse, Pedro Reyes, Martha Rosler, Sim Chi Yin, Ran Slavin. La guerra è finita! La pace non è ancora iniziata, invita a riflettere sulla profonda differenza che intercorre tra il semplice concludersi della fase armata di un conflitto e l’instaurarsi di una vera e propria condizione di pace, attraverso una selezione di opere che rimanda a guerre sia del nostro tempo sia di altre epoche storiche, seguendo una riflessione sul potere e il significato delle immagini nella storia dell’arte e della comunicazione.

Quando una guerra finisce, inizia – in genere lontano dall’attenzione mediatica – un tempo lungo che non sempre porta a una pace reale e durevole. In tempi recenti lo si è visto accadere ad esempio in Iraq e in Congo, dove si sono riaccese tensioni dopo decenni. E del resto, dal momento in cui gli Stati Uniti hanno deciso di “terminare la guerra in Afghanistan”, le violenze in quel Paese sono forse cessate? Alle porte di casa, l’invasione russa dell’Ucraina è ancor più indicativa: l’impossibilità di giungere a un compromesso ha irrigidito le posizioni delle due parti in una linea del fronte sempre porosa, ma sostanzialmente in stallo da mesi.

La guerra è finita! La pace non è ancora iniziata pone al centro della ricerca la fragilità di un momento di passaggio in cui un vecchio sistema è caduto e ne sta per sorgere un altro: un chiaroscuro in cui solo decisioni all’insegna del dialogo possono garantire un futuro. La presenza in mostra della prima bandiera della pace, creata nel 1961 da Aldo Capitini, fondatore del movimento nonviolento italiano, sottolinea l’importanza di chi lavora per costruire la pace.

 

La mostra si apre con le opere del fotoreporter ucraino Maxim Dondyuk, che presenta con un allestimento immersivo le serie fotografiche inedite Culture of Confrontation, Ukraine ‘22 e Between Life and Death. Le foto compongono un excursus che inizia dai giorni della Rivoluzione arancione nelle strade di Kiev e ci porta fin sull’attuale fronte del conflitto, nelle trincee e nei villaggi bombardati. A fianco degli scatti di Dondyuk, una selezione dalla serie Infra del fotografo irlandese Richard Mosse conduce il visitatore nelle foreste della Repubblica Democratica del Congo. Mosse, sfidando le categorie del giornalismo di guerra, documenta la dimenticata guerra del Nord Kivu, e ritrae con la pellicola a infrarossi paesaggi e momenti di vita quotidiana intrappolati in una drammatica tragedia umanitaria. La mostra prosegue con due opere di Terry Atkinson che testimoniano la barbarie dei conflitti in ogni epoca, sottolineando i rapporti tra economia e guerra.

Due video-saggi prodotti dalla Fondazione a cura di Fulvia Strano e Francesco Spampinato commentano, il primo, le rappresentazioni della guerra nella storia dell’arte, e il secondo, come le tecniche fotografiche e la loro evoluzione tecnologica abbiano reso sempre più lontane realtà e simulazione, cambiando la percezione degli eventi bellici. Le ricerche tracciano insieme un percorso che riflette sull’importanza delle immagini nel raccontare la guerra e nel plasmare la rappresentazione del vincitore e del nemico, mostrando come la narrazione dei conflitti sia stata spesso affidata a immagini accuratamente costruite.

Al primo piano il percorso continua aprendosi alla speranza, rappresentata dalla prima bandiera della pace realizzata nel 1961 per la marcia di Assisi da Aldo Capitini e Maria Francesca Siciliani, oggi custodita a Perugia. Segue l’opera di Leon Golub, pittore americano che nella sua lunga carriera ha rappresentato in modo diretto e spietato le dinamiche del potere e della violenza sui corpi. I lavori di Harun Farocki e Martha Rosler riflettono invece sulla ricezione e comprensione delle immagini create dalla guerra. Farocki, con un video documentario, riflette sulle relazioni tra l’atto di vedere e quello di rappresentare e tra economia capitalista e guerra, dimostrando come la tecnologia abbia reso obsolete le tradizionali concezioni dello sguardo e della creazione di immagini. I fotomontaggi di Rosler, che riprendono la storica serie Bringing the War Home realizzata durante la guerra del Vietnam, parlano dell’invasione americana dell’Iraq del 2003 e rivelano quanto la comprensione collettiva della guerra sia modellata e influenzata dai media. Oggetto delle opere esposte non sono solo scenari di guerra vera e propria, ma come nel video di Ran Slavin anche i ruderi e i detriti di campi militari d’addestramento oggi abbandonati: Slavin crea un contrasto tra questo paesaggio lunare e desolato e le riprese di un corpo femminile nudo, come a rimarcare quanto la terra e i corpi siano vittime delle guerre fatta dagli uomini.

 

L’opera di Francesco Arena, che recupera da un carcere un vecchio letto, mostra stralci della vita irregimentata dei soldati e dei prigionieri. Percorrendo il corridoio si incontra il neon di Alfredo Jaar, che citando Gramsci indica come le guerre nascano in momenti di smarrimento e di transizione tra un mondo vecchio che dobbiamo lasciare e uno nuovo che dobbiamo costruire.

Un mondo nuovo, che dovrebbe essere finalmente libero dalle armi nucleari, è ritratto negli scatti di Sim Chi Yin, nel corso di un viaggio che ci porta in Corea del Nord e nelle basi missilistiche nucleari statunitensi. L’artista messicano Pedro Reyes presenta il video Under the Cloud sui luoghi di sperimentazione delle bombe nucleari e, con la serie Disarm, trasforma le armi sequestrate dal governo messicano ai narcotrafficanti in strumenti musicali. Massimo Bartolini propone la ricostruzione del modello di pianoforte che le armate americane portavano nelle loro campagne militari durante la seconda guerra mondiale. Fattore potente di socialità, il pianoforte serviva ad alzare il morale delle truppe al fronte, divenendo così quindi uno strumento di guerra.

I dipinti della georgiana Eteri Chkadua accompagnano il visitatore nella dimensione quotidiana dello stato di guerra, con le sue conseguenze e ripercussioni, sia psicologiche che materiali. Segue l’allestimento di una serie di tappeti di guerra afghani che riproducono le armi dei tanti conflitti che hanno martoriato quella terra.

 

Al secondo piano troviamo il primo igloo realizzato da Mario Merz, Igloo di Giap, dove su una semisfera di argilla viene posizionata la frase del generale nord-vietnamita Giap: “Se il nemico si concentra perde terreno, ma se si disperde perde forza”, che da strategia militare diviene, nell’ottica di Merz, anche una riflessione sui flussi di energia.

Conclude il percorso una recente opera di JR, una stampa in negativo su legno di una foto di bambini profughi di guerra colti in una corsa libera e carica di speranza verso il futuro.

Al secondo piano è possibile visitare anche la nuova collezione Art Theorema #3, a cura di Claudio Scorretti, Irina Ungureanu Francesca Valente. Questa nuova collezione raccoglie 198 opere realizzate da 170 artisti, provenienti da oltre 80 paesi, nel formato 10×12 cm, tratto caratterizzante di Imago Mundi Collection. Il progetto è nato prima del Covid e si è concluso alcuni mesi dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. Questa raccolta di opere riflette sul concetto di crisi, che si collega al tema della mostra in corso-crisi intesa come momento decisivo del cambiamento, in un’accezione che vuole essere costruttiva.

Sempre al secondo piano è presente anche Tessere la pace di Olimpia Biasi. L’opera restituisce in forma visiva il tema della crisi come cambiamento. Realizzato in collages polimaterici su garza, questo lavoro rappresenta una tessitura che cerca idealmente di tracciare un percorso per ricomporre relazioni e rimarginare ferite.

Olimpia Biasi, trevigiana di origine, si è formata a Venezia con i maestri dello Spazialismo: Bacci e Gaspari. Ha attraversato linguaggi e tecniche diverse, rimanendo però fedele a una poetica naturalistica, espressionista e narrativa, al margine tra figurazione e astrazione metafisica. Dal 1972 ha esposto in più di 70 mostre personali in Italia e all’estero. È presente con due opere nella raccolta Art Theorema #3 di Imago Mundi Collection.

PHOTO CREDITS

© Marco Pavan

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