Curdi - Yazidi - Campi temporanei - OUT OF PLACE
Abir Abdullah - OUT OF PLACE. Arte e storie dai campi rifugiati nel mondo

MOSTRA CONCLUSA

OUT OF PLACE

ARTE E STORIE DAI CAMPI RIFUGIATI NEL MONDO
Con il patrocinio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR)

Fondazione Imago Mundi presenta da giovedì 7 marzo a domenica 14 luglio 2024 presso la sede espositiva delle Gallerie delle Prigioni Treviso la mostra Out of Place. Arte e storie dai campi rifugiati nel mondo.

L’esposizione, curata da Claudio Scorretti, Irina Ungureanu e Aman Mojadidi, si basa su una ricerca realizzata all’interno di 18 tra i più grandi campi rifugiati esistenti oggi, e presenta le testimonianze – opere e storie – di 264 artisti che risiedono in questi insediamenti o che hanno vissuto una simile esperienza in passato. 

Insieme alle 284 opere da loro realizzate sul formato 10×12 cm, vengono proposti interventi di fotografia, video, installazioni e documentazione video-fotografica per offrire una riflessione più ampia sull’attuale crisi globale dei rifugiati.

Dopo Kutupalong, in Bangladesh, la mostra presenta diverse testimonianze dall’Africa con due più grandi campi del Kenya – Dadaab e Kakuma – due rappresentativi insediamenti in Uganda – Nakivale e Bidibidi –, il campo di Dzaleka in Malawi, quello di Nyabiheke in Rwanda, e l’insediamento di Smara con gli adiacenti El Aaiun, Awserd, Boujdour, Dakhla, in Algeria. 

Il percorso dell’esposizione giunge quindi in Medio Oriente, a Za’atari, il più esteso campo per siriani, e in altri cinque campi per palestinesi: Baq’a, Hittin, Irbid, Madaba e Souf, tutti in Giordania. 

A questa cartografia si aggiungono artisti che hanno vissuto, dagli anni Ottanta ad oggi, situazioni analoghe in altre aree geografiche, inclusi artisti curdi e yazidi che raccontano la complicata storia del loro popolo, e 40 artisti afghani che, all’indomani della ripresa di potere da parte dei talebani nell’agosto 2021, hanno lasciato il Paese oppure sono rimasti in patria.

Completano la mostra le analisi delle migrazioni che giungono in Europa dall’Ucraina e tramite le rotte del Mediterraneo, e una sezione dedicata ai corridoi di migrazione in America del Sud e Centrale, con un focus sulla frontiera tra Messico e Stati Uniti.

“Esuli, migranti, rifugiati e apolidi, sradicati dalle proprie terre, sono costretti a fare i conti con un nuovo paesaggio – affermava Edward Said, critico e scrittore, in Nel segno dell’esilio – e la creatività, come del resto la profonda infelicità che si attribuisce al modo di fare di tali soggetti fuori posto, costituisce di per sé una delle esperienze che devono ancora trovare una loro narrazione”. Prendendo a prestito la definizione dei rifugiati proposta da Said – out of place – l’obiettivo della mostra è quello di offrire loro uno spazio di espressione, artistica e narrativa, e presentarli in primo luogo come artisti, considerando l’attuale o passato status di rifugiati come accidentale nella loro biografia. 

Alla luce delle storie e testimonianze raccolte, i campi ci appaiono non solo come realtà abitative fragili e temporanee, ma come entità in evoluzione, città accidentali, conglomerati urbani destinati a durare nel tempo. Un solo esempio come prova di un approccio che, invece di isolare, tende a integrare i campi nei paesi di accoglienza: nel 2023 il Kenya ha annunciato che i due insediamenti più grandi del Paese – Dadaab e Kakuma – si sarebbero integrati con le comunità locali.

Riuscire a raggiungere i campi è stato in sé un percorso iniziatico e una rottura di barriere: geografiche, linguistiche e amministrative. Realizzato con l’aiuto di artisti contattati direttamente all’interno dei campi e con il supporto di collaboratori esterni, il progetto è una testimonianza della funzionalità e della comunicazione aperta e dinamica che caratterizza i campi rifugiati presentati in mostra. 

Nonostante le vicissitudini, che l’arte sia ancora possibile all’interno di queste strutture e che gli artisti continuino a fare gli artisti rimane una scoperta straordinaria. Pittori, scultori, fotografi, registi nati e formatisi nel campo, raggruppati in piccole comunità, grazie al sostegno di organizzazioni umanitarie, con le loro storie insegnano lezioni potenti di determinazione e fiducia nella forza dell’arte. 

Raccontare la creatività che nasce nelle “città delle spine” – per riprendere il titolo del libro di Ben Rawlence sulla vita nel complesso di Dadaab – rimane lo scopo della mostra. 

Trovare, cioè, l’energia creativa in grado di trasfigurare l’insostenibile realtà, per poter trasmettere un messaggio come quello di Aminah Rwimo, regista multipremiata proveniente dal campo di Kakuma: “Volevo dare l’esempio e dire ai miei compagni sopravvissuti che qualunque cosa ci sia accaduta, fa parte sì della nostra vita. Ma non ne costituisce la fine.

All’interno del percorso espositivo, alle opere 10x12cm si aggiungono tre installazioni realizzate specificatamente per questa mostra da artisti presenti in collezione: Rushdi Anwar, artista curdo, presenta il lavoro Reframe “Home” with Patterns of Displacement, in cui frammenti di tappeti sono posti gli uni accanto agli altri, generando così spazi vuoti e irregolarità nei disegni che rimandano alla precarietà della vita dei rifugiati; Laila Ajjawi, street artist palestinese, ha prodotto un intervento artistico su tela che richiama i murales che normalmente dipinge nei campi per rifugiati; il fotografo Mohamed Keita, originario della Costa d’Avorio e giunto a Roma a 14 anni nel 2007, ha realizzato infine una serie di ritratti corredati dalle interviste del giornalista Luca Attanasio, dal titolo “Il Labirinto“.

L’esposizione si sofferma con questi ultimi lavori su una realtà vicina a noi, raccontando attraverso le immagini e le esperienze dirette dei protagonisti (tanto il fotografo, quanto i soggetti fotografati), cosa significa essere rifugiato in Italia.

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